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La musica in testa

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«Da un punto di vista evolutivo, il linguaggio e la musica sono fenomeni particolari, perché appaiono in una sola specie: l’Homo sapiens». Così Aniruddh D. Patel inizia il settimo e ultimo capitolo, quello dedicato all’evoluzione, di un poderoso libro, La musica, il linguaggio e il cervello, da poco tradotto e pubblicato in italiano dal’editore Giovanni Fioriti.

Patel è stato allievo di Edward O. Wilson a Harvard e poi di Gerald Edelman presso il Neurosciences Institute che il premio Nobel ha fondato a La Jolla, in California. E ora è professore associato di psicologia presso la Tufts University a Boston e, soprattutto, tra i massimi esperti al mondo dei correlati neurobiologici di quel complesso e, in genere, armonioso sistema di comunicazione fondato sui suoni e anche (John Cage insegna) sull’assenza di suoni che chiamiamo musica.
Attingendo a una sterminata e aggiornata letteratura scientifica, nel suo libro  Aniruddh D. Patel parla della fisiologia della musica: ovvero dei correlati biologici di altezza e timbro, di ritmo e melodia, di sintassi e significato, proponendoci un’analisi comparata tra il linguaggio vocale e il linguaggio musicale.

Nell’ultimo capitolo affronta il problema, non ancora risolto, dell’origine evolutiva dell’uno e dell’altro. Com’è nato il linguaggio? Com’è nata la musica?
Le due forme di comunicazione hanno molte caratteristiche in comune. Per esempio, appartengono solo a noi sedicenti sapiens. Sebbene molti animali non umani hanno forme di linguaggio parlato e di linguaggio musicale, infatti, nessun’altra specie – neppure i nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé – ha un linguaggio forbito come il nostro e una musica sofisticata come la nostra.
Tuttavia non è chiaro se il linguaggio parlato e il linguaggio musicale abbiano un’origine comune. Alcuni sostengono di sì. Altri, al contrario, di no. Occorreranno molte ricerche per sciogliere l’arcano. Di certo, chi vuole comprendere cosa lega musica, linguaggio parlato e cervello deve spiegare almeno due fenomeni che caratterizzano il linguaggio musicale.

Primo: la musica è un fenomeno universale. Tutte le società e le culture umane conosciute creano musica, in diversi modi: con la voce, con il corpo, con strumenti occasionali e costruiti ad hoc. I cuccioli di uomo a ogni latitudine mostrano di riconoscere e di apprezzare la musica. Queste capacità musicali si sviluppano fin dai primi mesi di vita senza alcun particolare addestramento e/o istruzione. Ancorché non traducibile, la musica è per tutti intelligibile, come rilevava ammirato l’antropologo Claude Levi-Strauss.

Secondo: la musica è una forma di comunicazione antica. In tutti i periodi del passato, almeno negli ultimi 30 o 40 millenni, troviamo tracce inequivocabili della capacità musicale dell’uomo. Spesso queste tracce sono costituite da strumenti costruiti ad hoc, con intenzione. E con sofisticazione. Intenzione e sofisticazione che implicano un “pensiero musicale” a sua volta sofisticato.

Il tentativo di spiegare questi fatti ha generato due diversi insiemi di teorie, che Patel discute a fondo, prima di proporne una sua, piuttosto originale. La prima scuola di pensiero sostiene che la musica ha una natura adattativa ed è frutto o dell’evoluzione per selezione naturale o, come pensava lo stesso Darwin, dell’evoluzione per selezione sessuale. La seconda scuola di pensiero sostiene, al contrario, che la musica è un’”invenzione” dell’uomo, frutto dell’evoluzione culturale.

Ci sono ragioni che militano a favore dell’uno e dell’altro insieme di teorie. Nessuna, però, è risolutiva. Cosicché la questione – peraltro cruciale nella ricerca delle basi evolutive della mente e della coscienza – resta aperta. Patel entra nei dettagli di entrambe le scuole di pensiero. E, in definitiva, di entrambe ne smonta le fondamenta. Tanto che, infine, propone una sua ipotesi originale. Anche se, ammette, non è ancora suffragata da sufficienti prove empiriche. Ebbene, secondo Patel, la musica non è né il frutto assoluto della selezione (naturale o sessuale) né una pura  invenzione culturale. È, piuttosto, una tecnologia. Una tecnologia molto particolare, come il fuoco. Facile da apprendere e di immediata utilità. Per questo ha quelle due caratteristiche che poche tecnologie hanno: l’antichità (è stato facile apprenderla) e l’universalità (la sua utilità, in termini di benessere individuale e di collante sociale, è immediatamente riconoscibile da tutti).

L’ipotesi di Patel è suggestiva. Ma neppure lei è in grado di sciogliere i nodi intorno a cui si accende, oggi, la discussione: sono musica i minuti di silenzio (quasi) assoluto di John Cage? È musica quella atonale di Arnold Schönberg?
Ai lettori nostri e, soprattutto, di Aniruddh D. Patel l’ardua sentenza.


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