L'astronomia non è roba da bar

Non illudiamoci, l'Astronomia non potrà mai diventare argomento da bar. Certo, di qualcosa si potrà anche parlare, purché non lo si faccia per troppo tempo, non si entri troppo nei dettagli e, soprattutto, si limiti la matematica. Il fatto che spesso tu debba, per forza di cose, buttar lì qualche numero e, magari, lasciarti inevitabilmente andare a qualche calcolo, fosse anche una delle quattro operazioni elementari, rende tutti molto sospettosi. 

Al bar è molto meglio parlare del tempo, di politica e di calcio. Su quei temi ci si può scannare - in senso buono, ovviamente - anche per un bel po' e il bello è che, alla fine, ciascuno può tranquillamente rimanere della sua opinione. E nessuno trova la cosa particolarmente illogica o sconveniente né, tanto meno, la reputa un'inutile perdita di tempo. Con i numeri e le leggi fisiche non si è così accondiscendenti. Non si può esserlo. La loro rigidità ti frega: o hai ragione o hai torto. Tranne che in rarissimi casi non si può aver ragione in due.
C'è anche un altro motivo. Come confermano le statistiche sul gradimento delle materie scolastiche, sappiamo tutti molto bene che la matematica non gode di ottima fama. Se poi ti capita di trovarla sul tuo cammino a una certa età, inevitabilmente ti fa risentire l'odore tipico delle aule scolastiche e gli angosciosi momenti di panico provati non appena sentivi echeggiare il tuo nome e ti rendevi conto che eri proprio tu la vittima predestinata per quel giorno. Sicuramente a questa cattiva reputazione dei numeri hanno dato il loro importante contributo generazioni di insegnanti che avevano a loro volta qualche conto aperto col fare i conti. Ma questa è un'altra storia.
Al bar difficilmente si ragiona di scienza, qualunque essa sia. Al massimo incontri chi ne parla per lamentarsi dei soldi buttati inutilmente al vento per la ricerca. Inutile tentare di convincere queste persone facendo loro notare che l'ultimo esame diagnostico che hanno fatto - una TAC, una risonanza magnetica o cose simili - è sicuramente il gradito frutto di tale ricerca. Neppure l'Astronomia, benché spesso sia vista con occhio più benevolo, fa eccezione. Molto rischioso, per esempio, anche solo accennare a quanto costi costruire un telescopio o mettere in piedi una missione spaziale. Ciò che viene recepito è che, tutto sommato, si tratta di un mucchio di soldi spesi inutilmente per guardare le stelle: «Ma chissenefrega delle stelle, meglio che diminuiscano la benzina e le tasse...». Se l'interlocutore ha una certa età il ritornello può forse cambiare, ma davvero di pochissimo: «Meglio che aumentino le pensioni, altro che andare su Marte...». A quel punto è completamente inutile controbattere e, con calma, provare a spiegare. Meglio aspettare, pazientemente, l'occasione propizia e colpire nel segno buttando lì qualche pillola di Astronomia. Ancor meglio se il colpo riesci ad assestarlo rendendo il tutto più digeribile, evitando cioè di ricorrere alla matematica. Credo proprio che il suo impiego debba essere riservato esclusivamente a casi eccezionali e con persone dallo stomaco forte. Si tratta anche di un'ottima occasione, tutto sommato persino elegante, per riuscire finalmente a vendicarsi di tutte quelle volte che l'Astronomia viene rivestita dei suoi paludamenti più antichi e frettolosamente confusa con l'Astrologia. Una confusione che, in genere, agli occhi di un astronomo moderno si configura come il più efferato dei delitti, ma che non suscitava analogo ribrezzo qualche secolo fa. Basterebbe ricordare come il grande Giovanni Keplero, il padre delle leggi che descrivono il moto dei pianeti intorno al Sole, non disdegnasse, per campare, di compilare oroscopi. Vista la nutrita schiera di creduloni, l'attività era tutto sommato redditizia anche a quei tempi ed era ben nota persino al nostro Galileo, il geniale propugnatore del Metodo scientifico. Ma quelli erano tempi in cui la scienza non si era ancora data le sue regole e il confine tra scienza e creduloneria era ancora tremendamente incerto. Oggi, quattro secoli dopo Galileo, non dovrebbe essere più così. Peccato, però, che il trafiletto con gli oroscopi che puntualmente compare ogni giorno su ogni giornale racconti una realtà molto differente.
Fortunatamente non tutti i bar - e soprattutto non tutti gli avventori - sono uguali. E qualche volta si riesce persino a parlare di Astronomia. Potrebbe essere il caso a offrirti un gancio inatteso, al quale ti devi aggrappare il più in fretta possibile, ma potrebbe anche succedere che l'occasione te la debba proprio costruire di sana pianta, spremendo al massimo la fantasia. Proprio questo è lo spirito dei brevi racconti di questo strano libro. Una dozzina di banali situazioni da bar trasformate in ghiotte occasioni per provare a buttar lì una pillola di Astronomia. Il tutto senza mai prendersi troppo sul serio.

Claudio Elidoro

Da qualche parte nella Pianura Padana, estate 2013

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Read time: 4 minsSubmitted by Amministratore on 11 September, 2013 - 16:25

01 - Super Luna

Ben vengano i messaggi televisivi che, in qualche modo, possono contribuire alla diffusione delle conoscenze astronomiche. Purché tale diffusione non finisca col degenerare in confusione. Bisogna riconoscere che in genere non succede e l’esperto di turno appositamente contattato racconta le cose come si deve, ma l’equivoco è costantemente in agguato. Capita, infatti, che la tentazione a voler rendere la notizia più appetibile finisca col farla scivolare lungo il pericoloso crinale del sensazionale. Era una calda serata di primavera, un amico astrofilo era passato a salutarmi e avevamo deciso di fare due passi al bar. Una spettacolare Luna piena si stava alzando dall’orizzonte per dare inizio al suo cammino in cielo e il mio amico mi stava raccontando dei suoi esperimenti di fotografia astronomica.
Proprio mentre parlavamo della Luna si avvicinò un conoscente. Persona simpatica, sempre disponibile ad attaccar bottone, ma non altrettanto veloce nell’intuire quando era il momento di interrompere la conversazione. Oppure di evitare persino di iniziarla. Sapeva del mio pallino per l’astronomia e non gli era sfuggito il mio arrivo. «Hai visto che Luna? L’avevano detto al telegiornale che questa sera sarebbe stata più grande del solito.»

Una splendida Luna piena sorge dietro le cupole del Very Large Telescope.














Una splendida Luna piena sorge dietro le cupole
del Very Large Telescope
(Crediti: G.Gillet/ESO)

Evidentemente aveva sentito la notizia che quella sera la Luna piena avrebbe coinciso con il punto di minima distanza dalla Terra e la circostanza avrebbe giocato a favore di una Luna più grande e brillante del solito. Ma non esageriamo! Provai a spiegarglielo: «Davvero una Luna spettacolare. Non ho seguito il telegiornale, ma da quanto mi dici mi sembra che si siano scordati di precisare che a occhio nudo è praticamente impossibile accorgersi della differenza.»
«Come impossibile? Vieni a guardare meglio. E’ così grande che occupa un bel pezzo di orizzonte. Molto più grande di quando è alta nel cielo.» Il mio amico provò a convincerlo: «Quello capita sempre. Quando sorge e quando tramonta, la Luna ci appare sempre molto più grande di quanto non ci appaia nel mezzo del cielo. E’ un’illusione ottica, non c’entra nulla con il fatto che questa Luna piena coincida con il suo perigeo.»
Spiegazione astronomicamente ineccepibile. Ma assolutamente inefficace con quell’interlocutore. Con lui bisognava utilizzare una tecnica differente, magari ritorcendogli contro la sua tenacia nel non mollare mai la presa una volta iniziata la conversazione. «Hai un po’ di tempo?» gli chiesi con noncuranza. Sapevo già quale sarebbe stata la sua risposta a quell’inaspettata opportunità di intavolare un discorso.
«Certo, la cosa mi interessa...» mi rispose immediatamente. E’ tutt’ora mia convinzione che l’interesse non fosse sull’argomento astronomico in sé, ma semplicemente sulla possibilità di una conversazione. Avessimo parlato anche delle abitudini tribali delle popolazioni del Borneo - argomento per altro estremamente interessante, mi dicono - avrebbe comunque accettato.
«Allora, facciamo una scommessa. Se io ti dimostro che la Luna è grande uguale sia quando sorge che quando è più alta nel cielo, tu ci paghi il caffè. Altrimenti pago io. Ti va?»
«Va bene. Però me lo devi dimostrare per davvero. Non solo a parole come ha provato a fare poco fa il tuo amico.»
Andata. Quella sera il caffè sarebbe stato gratis. Mi frugai in tasca cercando una monetina da un centesimo: neppure l’ombra. Chiesi allora un prestito al barista e porsi la monetina al mio antagonista in quella curiosa scommessa astronomica.
«Prendi. Adesso usciamo, tieni la monetina tra le dita e, allungando il braccio, prova a sovrapporla al disco della Luna. Più o meno dovrebbero avere le stesse dimensioni.» Uscimmo tutti e quattro - anche il barista, interessato, si era accodato - e si procedette a quella strana misurazione.
«E’ vero, sono praticamente uguali» disse lo scommettitore. «Questo, però, non significa proprio nulla. Cosa pensi di provare con questo giochetto?»
«Per il momento nulla» risposi. «Adesso rientriamo. Proveremo a ripetere il giochetto, come lo chiami tu, tra un’oretta e mezza. Dobbiamo dare modo alla Luna di cominciare a salire in cielo. E’ per questo che ti ho chiesto se avevi tempo.»
Io e il mio amico cominciammo a parlare tranquillamente delle nostre cose. All'inizio lo scommettitore provò a unirsi alla conversazione, ma proprio non gli riusciva di trovare qualche appiglio e dunque si limitava ad annuire. Ogni tanto si scusava e usciva dal bar. Evidentemente non voleva correre il rischio che la Luna, giusto per compiacere a due appassionati di astronomia, gli giocasse un tiro mancino e andava a sincerarsi di persona delle sue dimensioni man mano che il suo naturale cammino la portava sempre più alta nel cielo. A ogni rientro era sempre più nervoso.
Sadicamente, d’accordo con il mio amico, decidemmo di prolungare quel periodo di attesa oltre l’oretta e mezza concordata. Volevamo vedere quando lo scommettitore avrebbe gettato autonomamente la spugna. Per conto nostro, di argomenti di cui parlare ne avevamo a bizzeffe. E poi, se proprio fossimo stati alla frutta, in tivu stavano trasmettendo una partita di calcio. Meglio di così...
Quando decidemmo che lo scommettitore era cotto a puntino passammo a riscuotere. «Allora, sei pronto? Andiamo a misurare la Luna, ormai dovrebbe bastare.» L'occhio ci suggeriva una Luna molto più piccola di quanto non lo fosse in precedenza - e lo scommettitore non mancò di farmelo notare - ma, ovviamente, la misurazione mi diede ragione.
«Se ancora non ti fidi» gli dissi col tono pacato di chi non intende infierire «puoi ripetere la misurazione anche più tardi, quando la Luna sarà molto più alta in cielo. Non cambierà nulla. La sua maggiore dimensione all'orizzonte è un'illusione ottica. Anche per il Sole capita lo stesso, come pure per l'estensione delle costellazioni.» «Ma per il Sole non è colpa dell'atmosfera?» chiese lo scommettitore mentre rientravamo e si accingeva a onorare l'impegno.
«Questa era la spiegazione, sbagliata, che aveva dato il grande Tolomeo. Col tempo, altri hanno provato a dare differenti spiegazioni. Quelle forse più vicine al vero tirano in ballo un paio di difetti di comunicazione tra occhio e cervello. Il primo è che noi percepiamo l'orizzonte molto più lontano della volta celeste sulla nostra testa.
Il secondo inghippo è la presenza degli elementi del paesaggio che ci permettono un confronto diretto con la Luna, confronto impossibile quando è alta in cielo. Insomma, la Luna gigante all'orizzonte ce l'abbiamo solamente in testa.»
«E la storia della distanza dalla Terra che diceva il telegiornale?» chiese lo scommettitore aprendo il portafoglio per pagare i caffè.
«Beh, quella notizia è vera. La Luna è davvero nel punto di massima vicinanza alla Terra e questo comporta che il suo disco più grande. Circa l'8% rispetto alla media e quasi il 15% rispetto a quando è al suo punto di maggiore lontananza da noi.» «Allora non ho perso...» disse prontamente lo scommettitore con un lumicino di speranza che gli brillava negli occhi.
«Lasciami finire...» gli risposi con altrettanta prontezza. «Facciamo pure finta che tu ci riesca, a occhio, a valutare una simile differenza, la cosa complicata è che il paragone lo dovresti fare con le altre Lune piene dell'anno, quando il nostro satellite è più lontano di quanto non lo sia stasera. Ho davvero seri dubbi, però, che la tua memoria riesca a sostenerti in un simile confronto. Per riuscirci dovresti usare qualche strumento. Ma noi, ricordi, abbiamo parlato di occhio nudo.»

Pagò e se ne andò. Non mi pare avesse restituito il centesimo. Conoscendolo, sono certo che, prima di andarsene a letto, almeno altre tre o quattro misurazioni del disco lunare le abbia fatte.

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02 - L'ambulanza

In un paese ci si conosce tutti. E' dunque perfettamente normale che, quando il silenzio della campagna viene rotto dalla sirena di un'ambulanza, si faccia il rapido inventario delle persone che potrebbero essersi accaparrate quella sgradevole corsa in ospedale. Se sei al bar quella caccia al malcapitato termina rapidamente. Spesso, infatti, sei a stretto contatto di gomito con chi detiene più informazioni della CIA. Neppure il tempo di chiedere chi possa essere il poveretto, che subito ti viene sciorinato un elenco di papabili, seguito a ruota da quella che, secondo il superinformato avventore, potrebbe essere la risposta più probabile alla tua richiesta. Manca solamente un tabellone con le quote per essere praticamente in una ricevitoria SNAI.

















A fare da sfondo in questo fotomontaggio è
lo spettro della radiazione solare.
Il suo studio fornisce fondamentali indicazioni
sulla composizione della nostra stella
(Crediti immagine sfondo: Harvard - CfA)

Anche quel tardo pomeriggio festivo, grazie al prezioso intervento del superinformato, l’individuazione del possibile ospedalizzando aveva richiesto si e no il tempo necessario allo scambio di qualche battuta. Per la conferma definitiva si trattava di aspettare pazientemente l’inevitabile riaccensione della sirena dell’ambulanza che iniziava il suo ritorno verso l’ospedale. Una semplice valutazione del tempo trascorso prima di vederla transitare davanti al bar avrebbe decretato la correttezza della previsione e - cosa per me piuttosto fastidiosa - avrebbe anche sottolineato ancora una volta la completezza delle informazioni in possesso del superinformato.
«Ma uno non può sapere sempre tutto di tutti…» mi sono detto un po’ stizzito. Anziché appellarmi al garante per la privacy decidevo che era preferibile architettare una vendetta più soft. Obiettivo: pizzicarlo su qualcosa che sicuramente non conosceva. Per uno che ha come obiettivo pavoneggiarsi delle cose che sa - poco importa se inutili e marginali come la conoscenza dei fatti altrui - mettere a nudo anche una pur minima lacuna poteva essere una punizione più che sufficiente. Certo non potevo imbastire su due piedi un’interrogazione scolastica: non solo non ne avrei avuto motivo, ma avrei corso il rischio che la cosa mi si ritorcesse contro. Fortunatamente mi era passata per la testa un’idea, ma i tempi di intervento erano talmente ristretti che imponevano che mi dessi immediatamente una mossa.
«Prova a far caso al suono della sirena quando passerà qui davanti…» gli buttai lì con noncuranza mentre, un po' impaziente, scrutava la strada attendendo la sospirata - ma comunque scontata - conferma alle sue previsioni.
«Perché?» mi rispose con il solito insopportabile tono saccente.
«Poi te lo dico. Adesso ascolta e basta.»
Qualche istante più tardi l’ambulanza passò davanti al bar. Al suo transito, com’era prevedibile, un sorriso soddisfatto prese corpo sul volto del superinformato. Non gli permisi di assaporarlo appieno.
«Beh, cos’hai notato nel suono della sirena?»
«Che prima era più acuto e poi è diventato più basso.» «Corretto. E questo cosa vuol dire?» incalzai immediatamente. Quello era il punto più delicato. Se riuscivo a prenderlo all’amo era fatta. Un possibile «E che ne so…» avrebbe decretato la misera fine del mio piano. Fortunatamente il superinformato abboccò.
«Semplice, vuol dire che l’ambulanza si sta allontanando e quindi il suono viene da più lontano.»
«Ma quando era alla stessa distanza mentre si stava avvicinando il suono non era altrettanto basso. Come lo spieghi?»
Silenzio. Era la prima volta - forse - che qualcuno obbligava il superinformato a rendere ragione di quanto sapeva. O pensava di sapere. Qualche risatina cominciava a serpeggiare nel piccolo crocchio di avventori che si era formato davanti all’ingresso del bar. «Ti ha fregato, questo proprio non lo sai…» buttò lì qualcuno, prontamente folgorato da un’occhiata assassina.
«Sarà un effetto dovuto al rumore del motore…» buttò lì il superinformato in un estremo e disperato tentativo di riacquistare la sua credibilità così proditoriamente incrinata.
«Ma il motore era acceso anche quando si stava avvicinando…» incalzai senza pietà. Capitolò: «Va bene, non ne ho la più pallida idea. Contento? Dimmelo tu.»
Ignorai il tono sarcastico della sua ammissione d'ignoranza e iniziai il sermone vestendo i panni del buon samaritano.
«Sarò contento quando avrò svelato il mistero. Tanto per cominciare, sei in buona compagnia: fino al 1845, infatti, nessuno avrebbe risposto meglio di te. Poi Christian Doppler, un austriaco, spiegò che era tutta colpa del movimento della sorgente delle onde sonore rispetto a chi stava ascoltando. Quando la sorgente si avvicina è come se le onde venissero compresse una contro l’altra e quindi la tonalità è più acuta. Quando si allontana accade il contrario, le onde sono più distanziate e quindi il suono è più basso.»
Poi la stoccata finale, buttata lì quasi con noncuranza mentre mi giravo per rientrare nel bar: «E’ lo stesso ragionamento che ci ha portato a scoprire che il nostro Universo si sta espandendo.»
«Come, espandendo… E poi che c’entrano le onde sonore. Mica c’è il suono nello spazio.»
Aveva abboccato anche all’ultima esca. Gongolante - ma cercando comunque di contenermi al massimo - ritornai sui miei passi.
«La luce, cioè le onde luminose, si comportano proprio come quelle sonore. Lo predisse un francese, Ippolito Fizeau, qualche anno dopo la scoperta di Doppler. Quando una sorgente si avvicina la sua luce diventa più blu, mentre quando si allontana diventa più rossa.»
«E l’espansione dell’Universo?»
«Calma. Per quella bisogna aspettare un’ottantina d’anni e le osservazioni di Edwin Hubble. Fu questo astronomo americano, infatti, a scoprire che più si osservavano ammassi di stelle lontani - gli astronomi le chiamano galassie - e più la loro luce era arrossata, segno inequivocabile di un sempre più rapido allontanamento.»
«Questo proprio non lo sapevo» confessò il superinformato.
«Missione compiuta» dissi tra me e me avvicinandomi al bancone e ordinando una cedrata. Tutto quel movimento di onde mi aveva messo sete. E poi, seppure di nascosto, dovevo comunque brindare.

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03 - Stelle verdi

Ormai gran parte degli avventori se n’erano andati e il cortiletto all’esterno del bar era ridiventato vivibile, consentendo di scambiare quattro chiacchiere senza esser costretti ad alzare la voce. Non era certo per l’ora tarda, ma il fatto che in un paese vicino fosse stata organizzata una “Festa della birra” - manco fossimo in Baviera - aveva contribuito alla grande a dirottare lì i più accaniti festaioli.
Si era già fatto buio e, grazie all’acquazzone del giorno prima, il cielo era particolarmente terso. Non dovendo combattere con quel velo lattiginoso perennemente steso sopra i cieli delle città dall’inquinamento luminoso, numerose stelline facevano capolino su quel nero velluto. Un altro punto a favore della campagna. Certo, è impensabile avvicinarsi agli spettacolari cieli di montagna, ma quando l’afa estiva concede un po’ di tregua, le cose non sono poi così tragiche.
Mi trovavo dunque a godermi il fresco con quattro amici. Davvero una ghiotta occasione per provare a buttar lì una pillola di astronomia. Se avevano resistito fino a quel momento ai richiami della “Festa della birra” voleva dire che proprio non avevano nessuna voglia di muoversi dal paese. Doveroso, pertanto, approfittare biecamente di questa falla nel loro sistema difensivo.
Esauriti gli argomenti di rito e giusto per togliere di torno quell’imbarazzante silenzio che rischia di stagnare per interminabili minuti, mi venne quasi spontaneo richiamare l’attenzione dei quattro amici sul colore delle stelle.



























Una fantasmagoria di colori.
Sono le stelle dell'ammasso NGC 6362,
distante circa 25 mila anni luce dal Sole,
catturate dal telescopio
spaziale Hubbel
(Photocredit: ESA/Hubble & NASA)

«Secondo voi, di che colore sono le stelle?»
Domanda facile facile. Non dovevo metterli sul chi va là. Dopotutto bastava guardare in su e cominciare a elencare ciò che si riusciva a vedere. Domanda talmente semplice che, dopo pochi istanti passati con il naso all’insù, il più impaziente dei quattro sbottò: «Ma ce ne sono di tutti i colori. Guardando solamente le più luminose, laggiù ce n’è una rossastra, qui sulla testa una bianca, là un’altra quasi azzurra…» Gli altri annuirono. Qualcuno, trionfante, aggiunse altri esempi chiamando in causa stelline talmente flebili, che riuscivo a malapena a scorgerle. Figurarsi a beccare il loro colore. Insomma, la domanda era talmente facile da sembrare stupida. Passò qualche attimo, dopo di che il più sveglio dei quattro, che mi conosceva molto bene e aveva intuito che sotto doveva esserci qualcosa, chiese:
«Dov’è la fregatura?»
«Nessuna fregatura» risposi «volevo semplicemente vedere se riuscivate a scoprire e indicarmi una stella verde.»
«Se è solo per questo…» i quattro ritornarono con il naso all’insù sperando di cavarsela in quattro e quattr’otto. Nulla da fare. Dopo cinque interminabili minuti decisi di por fine alle loro infruttuose ricerche.
«Inutile passare al setaccio il cielo, di stelle verdi non ce ne sono . Magari qualche alieno avrebbe da ridire su questa affermazione, ma per noi esseri umani la cosa non si discute.» L’aver tirato in ballo un ipotetico alieno era un vecchio trucco del mestiere. Quando fai affacciare ET puoi contare su un bonus di attenzione di almeno cinque minuti. Devi comunque stare attento a giocartelo bene e non troppo di frequente altrimenti gli ignari interlocutori mangiano la foglia e ti abbandonano senza pietà, te e i tuoi argomenti astronomici.
«Per la spiegazione della mancanza di stelle verdi bisogna chiamare in causa due meccanismi. Il primo è il modo in cui le stelle emettono la luce che noi vediamo. La cosa può sembrare curiosa, ma in fisica per indicare il modo in cui un oggetto caldo emette luce si parla di emissione di corpo nero. Questa emissione avviene sempre in tutti i colori, anche se il suo massimo cambia a seconda della temperatura delle stelle. Giusto per fare un esempio, il massimo per il Sole è proprio nel colore verde. Curioso, vero? La luce che ci arriva dalle stelle, dunque, è sempre un miscuglio di tutti i colori.» «E allora? Questo vale anche per il rosso e l'azzurro» intervenne prontamente il più sveglio dei quattro «e invece noi quei colori li vediamo.»
«Qui entra in gioco il secondo meccanismo, cioè il modo con cui noi percepiamo i colori. Questo compito, nel nostro occhio, è affidato a particolari cellule chiamate coni. Sono di tre tipi, ognuno dei quali è sensibile a un solo colore. Sono cioè in grado di leggere il rosso, il blu e il verde. Quando vengono attivati tutti si ha la percezione della luce bianca. Una stella più fredda del Sole emette luce nell'infrarosso e noi riusciamo a percepire la coda di quell'emissione nel rosso, come pure se è molto più calda e il massimo della sua emissione è nell'ultravioletto noi leggiamo la sua coda nel blu. Nelle situazioni intermedie rileviamo un miscuglio di colori e vediamo il bianco. Al massimo riusciamo a cogliere alcune differenze di sfumature se ci capita di poter osservare due stelle di diverso colore vicine tra loro...»
«Ecco cosa c'entra ET» mi interruppe il mio diretto interlocutore «Se il suo occhio ha cellule sensibili a differenti colori potrebbe anche riuscire a vedere il verde.» Disastro. L'affermazione era correttissima, ma aveva inesorabilmente neutralizzato ET e il bonus di attenzione rischiava di esaurirsi vertiginosamente. Nonostante ciò, azzardai un'ultima considerazione:
«Hai detto bene. Però ET finirebbe col perdersi qualche altro colore. Il verde è proprio nel mezzo di quella che noi chiamiamo luce visibile. Dopotutto è proprio lì che il Sole ha il suo massimo di emissione e milioni e milioni d'anni di evoluzione non potevano non tenerne conto per ottimizzare il meccanismo della visione…»
Niente da fare, ormai il bonus di ET era proprio esaurito. Me ne accorsi perché gli altri tre erano alle prese con un problema ben più cruciale degli occhi di ET. Stavano infatti discutendo su chi avrebbe dovuto fare da autista per andare alla “Festa della birra”. Approfittai, vigliaccamente, dell'animata discussione per far perdere le mie tracce. Anche se sapevo che non me l'avrebbero perdonato e prima o poi avrei dovuto pagare le decime.

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04 - La rivincita del kiwi

Gli orari del pranzo e della cena sono molto soggettivi. A maggior ragione durante il periodo estivo. Ci pensano infatti i blandi ritmi del periodo di ferie, il fresco che concilia il sonno solo al mattino, il caldo che proprio non ti invoglia a metterti a tavola e simili complessi meccanismi a scandirti le operazioni di rifornimento energetico lungo la giornata. E i ritmi che ne vengono fuori, appunto, sono decisamente soggettivi. Terminato il pranzo - era ormai l'una e mezza - mi ero incamminato verso il bar per il caffè di rito. Più mi avvicinavo e più mi giungeva, sempre più intenso, il tipico vociare che solitamente caratterizza il momento degli aperitivi. Qualcuno, evidentemente, doveva ancora pranzare. E tra questi - la sua voce è un marchio di fabbrica - uno dei quattro amici che un paio di sere prima avevo bonariamente preso in giro con la storia delle stelle verdi. Difficile che ci fosse solamente lui.
Sapevo che con quei quattro avevo un conto aperto. Ma ormai ero a due passi dall'entrata, il caldo era piuttosto intenso e proprio non mi andava di girare i tacchi rendendo del tutto inutile quella passeggiata al bar. Entrai cercando di non dare nell'occhio. Impossibile.
«Eccoti qua. Capiti giusto giusto per l'ultimo giro di aperitivi. Così impari a farci cercare le stelle verdi.» 
Inutile protestare adducendo come spiegazione che ero uscito a bere un caffè, dunque la fase dell'aperitivo l'avevo ormai abbondantemente lasciata alle spalle. Mi fu concesso il caffè, ma dovetti farmi carico del giro di sangria che, a quanto mi sembrava di cogliere dalla tonalità delle voci e dal livello ormai molto basso nella caraffa, aveva davvero spopolato. Una sangria multicolore nella quale facevano mostra di sé anche dei verdi tocchetti di kiwi. Un'illuminazione: perché non buttar lì una appendice alla storia delle stelle verdi? Non mi era affatto chiaro quanto di quel discorso potesse giungere a destinazione, ma almeno mi levavo la soddisfazione di una inaspettata contro vendetta. 
























La splendida bolla di gas verde catturata
dal VLT è la testimonianza di una
stella morente che si è liberata dei suoi gusci
più esterni. Nota con il nome di IC 1295, questa
nebulosa planetaria dista 2500 anni luce dal Sole.
(PhotoCredit: ESO)

La splendida bolla di gas verde catturata dal VLT è la testimonianza di una stella morente che si è liberata dei suoi gusci più esterni. Nota con il nome di IC 1295, questa nebulosa planetaria dista 2500 anni luce dal Sole.
«Le stelle verdi non sei riuscito a vederle, ma quei pezzetti di kiwi mi accorgo che li vedi benissimo...» buttai lì con tono provocatorio mentre, con noncuranza, mescolavo il mio caffè. 
«E' vero. Come mai? L'altra sera avevi detto che non potevamo vederlo il verde...» «Calma, calma. Io ho detto che non possiamo vedere stelle verdi. Il colore verde lo vediamo benissimo. Scusa, pensa alle foglie degli alberi, all'erba e al verde pistacchio della macchina di tuo cognato...» la citazione era d'obbligo, vista la terribile tinta di quella vecchia automobile. 
A quello scambio di battute stavano assistendo anche gli altri tre del gruppo, impazienti come non mai di mostrarmi che mi ero sbagliato. Fortunatamente, quello dei tre che sembrava in grado di gestire la sangria meglio degli altri confermò la mia versione. Ma era intenzionato ad andare fino in fondo. 
«Perché le foglie sì e le stelle no? C'è qualcosa nello spazio che lo impedisce?». 
«Assolutamente no. Anzi, lo spazio è pieno di oggetti verdi e noi li vediamo benissimo. Sono solo le stelle che fanno eccezione. Mettiamola così: la differenza tra le stelle e le foglie - e la macchina di suo cognato - è che le stelle la luce la producono loro, mentre gli oggetti si limitano a farla rimbalzare verso i nostri occhi. E quando la luce colpisce un oggetto, la superficie di quell'oggetto modifica la luce prima che questa si allontani dopo il rimbalzo...». 
«Ho capito» mi interruppe il mio diretto interlocutore. «Se noi vediamo un oggetto di colore giallo è perché quell'oggetto ha fatto rimbalzare solamente il colore giallo. Giusto?» «Non è proprio così...» Guardai la brocca di sangria sempre più vuota e mi dissi: «Guai a te se tiri in ballo le idee di Joung, la teoria della tricromia, l’additività dei colori...». 
«Cosa? Chi?». 
«No, niente...» evidentemente il mio era stato qualcosa di più di un semplice pensiero. «Dicevo che il verde di quei kiwi, il rosso delle fragole e il giallo delle pesche viene dalla luce che è rimbalzata su quei frutti, è stata raccolta dal nostro occhio ed è stata interpretata dal nostro cervello. La luce iniziale - che viene dal Sole - per noi era bianca e ci hanno poi pensato le diverse superfici della frutta a modificarla. Senza contare le modifiche dovute alla presenza del vino.» 
«Lascia stare la sangria. Prima hai detto che nello spazio si possono vedere anche oggetti verdi. Non mi risulta ci siano foglie su cui rimbalza la luce. Che coloranti ci sono?» «Nessun colorante. In quel caso è colpa di alcuni gas, per esempio l'ossigeno, che se vengono riscaldati emettono luce in un solo colore, che può essere il verde. E' un po' come per i tubi al neon multicolori delle insegne luminose.» 

Anche il terzo dei miei interlocutori decise che era giunto il momento di dare il suo diretto contributo al dibattito:
«Ma le stelle verdi perché non ci sono?»
No, non potevo ricominciare da capo. Forse avevo preteso troppo, ma non dovevo assolutamente mollare. Il ferro va battuto finché è caldo. Un'illuminazione: il ferro riscaldato! L’autore dell'ultima domanda lavorava in un'officina in cui si svolgevano tipici lavori da fabbro, dunque potevo aggrapparmi a quello. «Hai presente quando scaldi il ferro con la fiamma ossidrica.» «Certo, prima diventa rosso, poi arancione, poi sempre più chiaro fino a splendere di un bel bianco brillante.»
«Proprio come le stelle: il ferro non diventa mai verde. Il fatto è che quando si scalda ed emette la luce lo fa su un ampio intervallo di colori e il nostro occhio mescola tutto.» «Beh, ma non potevi dirmelo prima che le stelle funzionano come il ferro in officina? Ma cos'è che le scalda fino a quel punto?»
La domanda era incredibilmente stimolante, ma decisi di ignorarla. La sangria nella brocca era terminata, prontamente sostituita da una fresca e invitante bottiglia di Prosecco nei pressi della quale il bravo barista aveva fatto comparire un salamino e qualche pezzetto di pane. Assolutamente impensabile buttar lì un'altra pillola astronomica.
Mentre la cifra era ancora accettabile, pagai il mio pegno e salutai. Non ci fu neppure bisogno di giustificare la mia fuga: l'attenzione di quei famelici avventori era rivolta a ben altro.

Undefined
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05 - L'UFO

Mi capita raramente di frequentare il bar alla sera. Il motivo principale è che, dopo essere stato tutto il giorno in mezzo alla gente, alla sera non ne puoi proprio più e il rischio di fare l'orso è in agguato. Questo significa che, quando capita, devo mantenere la guardia alta se voglio dare il meglio di me stesso. Se però il clima rimane tranquillo e i tipici rompiscatole da bar hanno pensato bene di frequentare altri lidi ne può venir fuori anche una serata estremamente gradevole. Per me, s'intende. Non so, infatti, se la pensino così anche quei malcapitati ai quali tento, rigorosamente a tradimento, di inoculare qualche nozione astronomica.

















La Luna e Venere risplendono nel cielo
del Cerro Paranal, in Cile. Un'occhiata a quel
cielo cristallino basta e avanza per comprendere
come mai gli astronomi abbiano voluto collocare
proprio lì il Very Large Telescope.
(PhotoCredit: ESO/Y. Beletsky)

Una di quelle sere - si era in primavera inoltrata - me ne stavo seduto a ripassare le notizie del giornale. Ero dunque alle prese con un interessante articolo riguardante il ritardo della primavera e il caldo venuto all’improvviso quando la mia lettura venne interrotta da un tizio appena entrato nel bar. Non era del paese, ma evidentemente la strada per arrivare da quelle parti gli era ben nota.
«Dammi un amaro, devo riprendermi. Ho appena visto un UFO» disse rivolto al barista con tono concitato.
Come potevo starmene zitto?
«Questa scusa non l'avevo mai sentita. Mi sembra comunque inutile: sei in un bar, ordini e il barista è ben felice di servirti qualunque cosa tu gli chieda. Proprio non serve accampare scuse.»
«Ma che scuse e scuse. L'ho visto davvero. Era una luce intensa, molto più brillante delle stelle e mi ha accompagnato lungo tutto il tragitto dalla provinciale fin qui.»
Guardandolo meglio, in effetti sembrava un po' agitato. Se, però, quell'UFO lo stava accompagnando da qualche tempo e lui doveva di tanto in tanto fermarsi e ricorrere a un piccolo contributo esterno per farsi un po' di coraggio, quella sua agitazione poteva trovare una ben valida spiegazione nel crescente tasso alcolico.
L'orso stava pericolosamente mettendo il naso al di fuori. Meglio reagire.
«Dacci qualche particolare» gli dissi andando verso il bancone. Scelta condivisa anche da un paio di altre persone.
«Ho cominciato a vederlo appena abbandonata la provinciale. Un po' basso sull'orizzonte, ma molto molto luccicante. Impossibile non farci caso. Era proprio alla mia destra. Immobile. Ci sono almeno un paio di chilometri di strada prima di arrivare qui, è tutta aperta campagna e ogni tanto controllavo. Sempre nello stesso posto e sempre brillante. Mai vista una luce così intensa e luccicante. A un centinaio di metri dall'inizio del paese, improvvisamente, scompare. Ho anche rallentato per guardare meglio: sparito. Cosa poteva essere se non un UFO?»
«Mai sentito parlare di pianeti?» gli buttai lì immediatamente. Sapevo che in quelle sere Venere stava dando il meglio di sé, ma prendere il pianeta per un UFO mi sembrava eccessivo. D’accordo, nel 1969 c’era cascato anche il futuro presidente USA Jimmy Carter, ma questa non era una scusa valida.
«Vieni a vedere il tuo UFO» gli dissi avviandomi verso la porta del bar. Lungo la via con la quale faceva angolo il bar, a una ventina di metri di distanza, si poteva godere di una sufficientemente ampia visuale verso ovest. Non era certo la postazione migliore per osservazioni astronomiche, ma più che sufficiente per disinnescare l’UFO.
Come previsto, Venere era là. Di gran lunga più luminoso di ogni altra stella e incredibilmente appariscente. La sua posizione ormai molto bassa sull’orizzonte, poi, lo rendeva più scintillante del solito.
«Eccolo lì. Non si chiama UFO, si chiama Venere. E’ un pianeta e la sua presenza in cielo è studiata almeno da 3700 anni.»
«In effetti è proprio la luce che ho visto. Ma come mai è sparita di colpo?»
«Questo è ancora più facile da spiegare. Tu non sei pratico della campagna di queste parti e dunque non sai che, prima di entrare in paese, ci sono un paio di campi piantumati a pioppi. Non sono a ridosso della strada, ma molto più all’interno e con il buio della notte proprio non si vedono. Semplicemente Venere è stato nascosto dagli alberi. Tutto qui.»
Anche un paio di altre persone del bar si erano unite a quella breve ma efficace caccia all’UFO.
Mentre si stava rientrando, uno di loro buttò lì una domanda:
«Scusa, ma a me è stato sempre detto che i pianeti non luccicano. Solo le stelle brillano, mentre i pianeti hanno una luce fissa. Com’è che Venere sembra proprio luccicare?»
«Colpa dell’atmosfera. Il caldo di questi giorni comincia a farsi sentire, rende l’aria più turbolenta e accentua il fenomeno del luccichio. Verso l'orizzonte, poi, la luce degli astri ha molta più aria da attraversare. Non ti è mai capitato d’estate, in macchina, di vedere l’asfalto in lontananza tutto tremolante?»
Mentre davo questa risposta non potevo fare a meno di constatare come il mio interlocutore non fosse proprio digiuno di astronomia. Quella distinzione tra stelle e pianeti non è una cosa comune e in quella sera di quasi estate mi veniva offerta una splendida occasione per approfondirla.
«Hai detto che i pianeti hanno una luce fissa. E’ corretto. Ma mi sapresti anche dire il perché?» buttai lì con noncuranza, punzecchiando il mio interlocutore.
«Semplice. Perché le stelle la luce se la producono loro, mentre i pianeti riflettono quella del Sole.»
Evidentemente il mio interlocutore si era perso qualcosa nella spiegazione. Oppure chi gliela aveva fornita non era poi così informato. «Risposta sbagliata. Per il nostro occhio cambia davvero poco se la luce arriva direttamente da una stella oppure è stata intercettata e deviata verso la Terra da un pianeta. Cambia il suo colore, quello sì: pensa solamente al colore rossastro di Marte. Questo però non c’entra col luccichio…»
Strano, non stavo parlando solo per me stesso. L’argomento interessava. Il che mi spronava a proseguire.
«E poi, non pensare che il luccichio di una stella sia dovuto a improvvise variazioni della sua luminosità. Te l’immagini, se fosse così, cosa vorrebbe dire per il Sole e la Terra? Da finire arrostiti. La spiegazione è molto più semplice. E’ tutta colpa della distanza.»
«Cosa c’entra la distanza con il luccichio? Ci stai prendendo in giro.»
Volutamente avevo imboccato una strada secondaria per arrivare alla spiegazione. Volevo sincerarmi che la mia impressione sulla loro attenzione fosse corretta. Avuta la conferma, imboccai la strada meno tortuosa.
«E’ colpa della distanza perché una stella, per quanto grande essa sia, per noi sarà sempre un puntino. Più o meno luminoso, ma un puntino. Un pianeta, anche se le sue dimensioni sono di gran lunga più piccole di quelle di una stella, è comunque enormemente più vicino a noi. Esagerando, potremmo dire che per il nostro occhio una stella è un puntino mentre un pianeta è un piccolissimo dischetto.»
«Oh, adesso la cosa ha più senso. Ma non capisco ancora il luccichio.»
«La luce che arriva al nostro occhio» continuai, infervorato «ha prima dovuto attraversare l’atmosfera e lì la turbolenza dell’aria gioca un ruolo determinante. Se, per un attimo, riesce a deviare il piccolo fascio di luce della stella, per il nostro occhio è come se l’astro scomparisse, per poi immediatamente riapparire non appena il fascio luminoso torna a colpirci. Per i pianeti non è così. Siccome sono dei piccoli dischi, da essi ci arrivano molti fasci di luce che non vengono tutti deviati allo stesso modo. Qualcuno lo perderemo di vista, ma ce ne saranno altri che arriveranno comunque al nostro occhio. Lo scintillio, insomma, sarà decisamente molto meno evidente.»
«Allora, senza atmosfera non scintillerebbe nulla» buttò lì l’avvistatore di UFO, mostrando di aver compreso correttamente la spiegazione. «Esatto. Se fossimo sulla stazione spaziale oppure sulla Luna, non vedremmo nessuna stella lampeggiare.»
«Ma vuoi mettere che malinconia? Sembrerebbe un cielo finto.»
Il commento conclusivo dell’avvistatore di UFO mi lasciò di stucco. In poche parole era riuscito a condensare tutta la bellezza e il fascino del cielo stellato. Fin troppo bravo: eravamo proprio sicuri che quello strano visitatore piombato quella sera al bar non fosse un alieno?

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06 - Stagione di caccia

L'arrivo dell'autunno solitamente coincide con l'apparizione di agguerrite compagnie di cacciatori. Ne intuisci la presenza dai colpi di doppietta che echeggiano per la campagna fin dalle prime ore del mattino e ne hai la piena conferma quando, passando dal bar in tarda mattinata, ti accorgi che per il tuo caffè dovrai attendere più del solito, dato che il barista è monopolizzato da un nutrito gruppo di persone in abbigliamento mimetico. Fu così che quella fresca domenica di inizio ottobre per riuscire a bere un caffè dovetti armarmi di santa pazienza. Mentre condividevo l'attesa con un altro paio di persone, miei conoscenti, ed eravamo praticamente immersi nostro malgrado nel vociare dei cacciatori, risultò inevitabile ascoltare gli epici racconti delle gesta venatorie appena concluse. Oltre ai colpi andati a segno, però, quel mattino affiorò anche la buona notizia di un paio di prede che erano riuscite - almeno per quel giorno - a farla franca. Le risate di scherno indicavano senz'ombra di dubbio che la grazia inaspettata per quelle bestiole non la si doveva al buon cuore del cacciatore, ma unicamente alla sua scarsa mira.
«A quanto pare non sono l'unico scarso a sparare» confidò uno dei due che, come me, era in attesa della disponibilità del barista. «Quando ho fatto il militare, il caporale continuava a ripetermi che era meglio che il fucile lo lasciassi sempre scarico.»
Era più o meno mio coetaneo, dunque potevo punzecchiarlo senza eccessivi timori su quegli anni lontani di naja: «Si vede che quando hanno spiegato come prendere la mira stavi dormendo della grossa.»
«No, no. Ero attentissimo e avevo capito alla perfezione che dovevo allineare l'occhio, il mirino e il bersaglio...»
«Allora si vede che chiudevi l'occhio sbagliato...» disse l'altro conoscente, aggregandosi a quel bonario scherzo.
«Io gli occhi li tengo sempre ben aperti entrambi» buttò lì con tono asciutto uno dei cacciatori, probabilmente infastidito che tre non addetti ai lavori si permettessero di scherzare su quel sacro rituale che è lo sparo con un fucile.
Quella precisazione non richiesta mi aveva un po' infastidito, ma mi aveva anche fatto balenare un possibile interessante sviluppo della conversazione. La faccenda, però, andava gestita al meglio.























Le osservazioni effettuate con la Terra  in punti diametralmente
opposti dell'orbita hanno permesso di individuare lo spostamento
delle stelle più vicine rispetto a quelle molto più distanti
e di risalire così alla loro distanza. L'osservazione, però, è tutt'altro
che semplice. Non facciamoci ingannare dalla figura:
lì lo spostamento è stato esagerato. (PhotoCredit: ESA/Medialab)

«Si vede che hai imparato a correggere adeguatamente la parallasse...» buttai lì quasi con noncuranza «...e il poter tenere entrambi gli occhi aperti ti garantisce il pieno controllo tridimensionale della scena.»
Lo sguardo dei miei due conoscenti, evidentemente spiazzati da quelle parole, era così perplesso che mi venne spontaneo provare a spiegare: «L'errore di parallasse è un difetto abbastanza comune non solo per chi spara, ma anche per chi deve leggere uno strumento di misura. Mai capitato di utilizzare uno strumento di misure elettriche? Non un tester digitale, ma uno di quelli che si usavano un po' di anni fa, quelli con la lancetta e la scala graduata...»
«Eccome: era una presenza fissa alle lezioni di laboratorio a scuola» disse prontamente il cacciatore. Il tono di voce era diventato più conciliante, evidentemente era curioso di scoprire dove si sarebbe andati a finire.
«Benissimo. Allora ricorderai che sul quadro di lettura vi era una zona riflettente, una finestrella a forma di arco appena al di sotto della linea con le tacche e i valori delle misure...»
«Questo me lo ricordo anch'io» disse con entusiasmo uno dei due amici. «Quando si doveva leggere una misura bisognava stare attenti che la lancetta del tester fosse proprio allineata con l'immagine riflessa nella finestrella.»
«Bravo. Vedo che degli anni trascorsi all'ITIS almeno qualcosa è rimasto. Il trucchetto serviva a evitare di fare una lettura sbagliata con il tester. Il problema lo si capisce al volo con il giochetto del dito. Allunga il braccio in direzione di un oggetto lontano e tieni un dito alzato. Ora chiudi prima un occhio e poi l'altro. Vedrai che, rispetto a quell'oggetto, il tuo dito sembra saltellare ora da una parte ora dall'altra.»
Pur essendo del tutto innocuo e suggerito dalle più buone intenzioni, non si trattava certo di un esercizio abituale per un bar. Considerando che, nel giro di qualche minuto, un altro paio di cacciatori si erano aggregati al gruppetto, anche loro col braccio teso e il dito alzato, il timore che qualcuno chiamasse un'ambulanza diventava concreto. Il che mi indusse a tagliare corto.
«E' il giochetto che sta alla base della mira: come ci dicevano ai tempi della naja dobbiamo allineare occhio, mirino e bersaglio. Ma lo sapete che l'errore di parallasse è stato un nodo fondamentale per l'astronomia?» Avevo buttato lì la domanda quasi con noncuranza. La speranza era che almeno uno dei miei conoscenti ora impegnati ad ammiccare al proprio dito raccogliesse la provocazione, ma la sponda mi arrivò dalla direzione più inaspettata.
«Cosa c'entra l'astronomia con la linea di mira?» chiese incredulo uno dei cacciatori.
«Nel 1800 gli astronomi erano alle prese con una grossa questione: quanto sono distanti le stelle? La faccenda non era per nulla chiara. Qualcuno, però, sosteneva che potesse funzionare un giochetto come quello che facevamo poco fa. In pratica diceva che, rispetto a quelle molto più lontane, una stella vicina avrebbe dovuto mostrare lo stesso comportamento del nostro dito.»
«E come la mettiamo con l'occhio da schiacciare?» mi incalzò il curioso interlocutore. «A quello ci avrebbe pensato il moto della Terra intorno al Sole. Facendo le osservazioni a sei mesi di distanza era come se si utilizzassero alternativamente due occhi abbastanza separati tra loro.» «Geniale. Ma come mai si dovette aspettare fino al 1800? Il giochetto sembra piuttosto evidente. Con gli occhi messi così distanti, poi, dovrebbe essere uno scherzo.»
«Niente affatto. Il grosso guaio è che, rispetto alla distanza tra la Terra e il Sole, anche le stelle più vicine sono tremendamente più distanti. E' dunque assolutamente impossibile riuscire a individuare quel piccolo spostamento della parallasse a occhio nudo. Occorrono strumenti sofisticati e fu solamente nel 1838 che il tedesco Friedrich Bessel riuscì nell'impresa con una piccola stellina della costellazione del cigno. Fu un successo incredibile, una data storica per l'astronomia.»
«E bravo il tedesco: ha mirato al cigno e ha fatto centro» concluse soddisfatto il mio interlocutore tradendo una notevole deformazione professionale.
Pur non condividendo la cruenta immagine venatoria, tutto sommato mi sembrava una sintesi accettabile dell'improbo lavoro dei cacciatori della parallasse. Non mostrai comunque di apprezzarla: non volevo correre il rischio di essere coinvolto in altri discorsi venatori. Con la scusa che al bancone la ressa si era diradata, sgusciai via dal gruppetto e riuscii finalmente a gustare l'agognato caffè.
Mentre mi avviavo verso l'uscita mi sembrò di notare che qualcuno tra i cacciatori avesse ancora il braccio teso. Ma forse anche la mia è deformazione professionale e il tizio stava semplicemente mostrando la posizione migliore per imbracciare una doppietta e difendersi da un leprotto riottoso che ti si sta scagliando contro.

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07 - Santa Lucia

Conosco il barista del mio paese fin da quando era piccolo, quindi non faccio proprio fatica a parlare con lui anche di argomenti non propriamente da bar. Una fortuna notevole, molto utile sia quando scopri di essere in anticipo e hai dunque la necessità di far trascorrere il tempo, sia in quei giorni storti in cui hai bisogno di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno, non importa su quale argomento. E' vero, ci sarebbe anche il barbiere, ma se hai dovuto ricorrere al suo estro d'artista si e no una decina di giorni prima, non ci puoi proprio tornare. E poi il suo salone non è sempre aperto.
Era un pomeriggio inoltrato di metà dicembre e il mio passaggio al bar era giustificato dalla necessità di un caffè tonificante in attesa di una riunione alla quale ero stato invitato. Sbrigata la formalità, mi accingevo a uscire quando l'occhio cadde sull'orologio che campeggiava dietro il bancone. Una rapida occhiata al mio orologio e un altrettanto rapido scambio di battute col barista bastarono a farmi comprendere che il mio orologio aveva deciso di scandire il tempo per i fatti suoi e dunque dovevo trovare il modo di occupare il quarto d'ora abbondante di anticipo sull'appuntamento.























Particolare della tomba di Papa Gregorio XIII nella Basilica di SanPietro.
A questo papa si deve, nel 1582, la riforma del vecchio calendario
che risaliva a Giulio Cesare. A presiedere la commissione di esperti, 
Gregorio XIII chiamò il gesuita e matematico bavarese Cristoforo Clavio.
(PhotoCredit:  AlmaPater)

Dalle mie parti - ma credo anche in molte altre regioni del Settentrione - quel giorno era un giorno particolare per i bambini più piccoli. Era infatti il 12 dicembre, la vigilia del tanto atteso giorno di Santa Lucia. Secondo la tradizione delle mie parti, infatti, quella notte la Santa sarebbe passata per le case a elargire i suoi doni ai bambini bravi. Una tradizione davvero molto radicata e il cui ricordo aveva ogni volta la capacità di riportarti indietro nel tempo.
Poiché il mio barista ha due bambini in età “da Santa Lucia” avevamo iniziato a parlare dei preparativi che l'avrebbero impegnato quella sera una volta chiuso il bar. Una parola tira l'altra e ci eravamo puntualmente ritrovati a parlare di quando eravamo noi i destinatari di quei sospirati regali. Tra i vari discorsi, inevitabilmente, era emersa anche la citazione del proverbio secondo cui quella di Santa Lucia è la notte più lunga che ci sia. «E' un proverbio che rende davvero bene l'idea» osservavo «quella notte sembrava non passare mai. A letto, con gli occhi chiusi perché Santa Lucia proprio non la si doveva vedere, ma pronti a balzare dabbasso non appena un minimo segnale ci avesse dato il via libera.»
«Non è solo un proverbio. E' proprio così.»
A fare quell'affermazione perentoria era stato un avventore dal bar. Evidentemente si era stancato di far passare per l'ennesima volta le ultime pagine del giornale, quelle con l'elenco dei necrologi. Probabilmente aveva realizzato che anche per quel giorno gli era andata bene e dunque aveva voglia di attaccare bottone. L'occhiata che gli buttai voleva essere scocciata, ma finì col comunicare all'intruso un mio - inesistente - interesse per quanto aveva detto. Il mio linguaggio del corpo aveva urgente bisogno di qualche lezione di recupero.
«Lo dice anche il calendario. Guarda l'orario in cui tramonta il Sole.»
Ovviamente su quello aveva perfettamente ragione, ma la sua conclusione era del tutto sbagliata. Quella sua improvvida intromissione mi aveva innervosito, ma non potevo certo essere più sgarbato di quanto non lo fosse stato lui. A ben pensarci, però, era un'ottima occasione per una digressione astronomica.
«Hai un calendario bene informato sul tramonto» gli dissi nel modo più pacato possibile «ora devi guardare se è altrettanto bene informato anche per la levata del Sole.» «E cosa c'entra la levata del Sole?» mi rispose in tono seccato «stiamo parlando della notte, mica del giorno.» «Appunto. Si dà il caso, però, che la notte finisca quando inizia il giorno. Almeno, fino a stamattina è andata così.» Ormai la precedente pacatezza era un lontano ricordo. «Se dunque guardi l'ora del sorgere del Sole e ti metti a fare due conti ti accorgi subito che la notte più lunga è dalle parti del 21 dicembre, il giorno del solstizio d'inverno.» «Cosa vuol dire solstizio?» mi chiese il barista - anche con l'intento, davvero encomiabile, di evitare il degenerare di quella conversazione.
«Il Sole non compie tutti i giorni il medesimo percorso in cielo. La sua massima altezza sull'orizzonte, più o meno a mezzogiorno, non è sempre la stessa. Il giorno in cui passa per il punto più basso è detto solstizio invernale, mentre quando è alla sua massima altezza sull'orizzonte è detto solstizio estivo. Nel corso dell'anno, insomma, la posizione del sole a mezzogiorno gradualmente prima sale e poi scende. La parola solstizio indica che il Sole ha raggiunto una specie di stazione e da lì in poi inverte quel suo moto altalenante. Il giorno del solstizio d'inverno è quello in cui il Sole sta per meno tempo sopra l'orizzonte, dunque la notte sarà quella più lunga di tutte.»
«E il proverbio, allora?» lo scocciatore non mollava la presa. Visto che il calendario non gli dava ragione, aveva pensato bene di appellarsi alla tradizione popolare.
«Secondo me il proverbio risale a prima del 1582...» sentenziai con fare vagamente misterioso.
«Come fai a dirlo? Sarà sicuramente vecchio, ma perché proprio quell'anno? C'entra la scoperta dell'America?»
«Assolutamente no. Per quella devi modificare la data: togliere uno dal cinque e aggiungerlo all'otto...» Non aspettai che lo scocciatore terminasse il conto. «In quell'anno il Papa Gregorio XIII aveva deciso di rimediare a una evidente sfasatura tra il calendario civile e quello astronomico. Gli scienziati di allora si erano accorti che quello civile era in ritardo di una decina di giorni e Gregorio XIII decretò che per quell'anno sarebbero spariti 10 giorni dal calendario, che sarebbe dunque passato direttamente dal 4 al 15 ottobre. Se fai mente locale ti accorgi che sono più o meno i giorni che separano Santa Lucia dal solstizio, viene dunque spontaneo pensare che quando il proverbio è stato inventato la notte di Santa Lucia fosse davvero quella più lunga dell'anno.»

Dallo scocciatore nessuna reazione. Evidentemente la spiegazione lo aveva convinto. Se ne accorse anche il mio amico barista che, quasi a voler rincarare la dose, osservò: «Chissà che casino quel cambio di calendario. Nessuno si lamentò?»
«Come no. E non ci fu solamente chi protestò perché per quel mese la paga sarebbe stata più bassa, ma anche chi riteneva che il Papa gli avesse fregato dieci giorni di vita.» Dopo di che, vigliaccamente, aggiunsi: «Te l'immagini se ci fossero stati i giornali e i necrologi quanta gente avrebbe passato ore e ore a consultarli tutti quanti minuziosamente?» Il seccatore neppure colse quell'allusione. Si era nuovamente tuffato nella meditazione delle ultime pagine del giornale.

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08 - Luminarie

Le lucine natalizie non sono un'esclusiva delle grandi città. Anche nei piccoli paesi di campagna ci tengono, pur nei limiti imposti dalla crisi economica e dai drastici tagli ai bilanci comunali, a ricordare ai più distratti l'approssimarsi delle Feste. Dall'inizio di dicembre fino a metà gennaio, dunque, la via sulla quale si affaccia il bar che frequento cambia pelle e il camminare in mezzo a quell'insolito luccichio ti mette persino di buonumore. Una di quelle sere giunsi all'ingresso del bar proprio nell'istante in cui ne stava uscendo un amico, manco ci fossimo messi d'accordo per ottenere quel perfetto tempismo. Poiché era un po' di tempo che non avevamo l'occasione di scambiare due parole, ci venne naturale fermarci per un po' davanti alla porta del bar. Finimmo ovviamente anche per parlare delle luminarie e, intenti a valutarne le forme in alcuni casi regolari e classiche e in altri un po' più bizzarre, non ci accorgemmo del sopraggiungere di un ragazzotto, evidentemente piuttosto impaziente di entrare al bar. «Almeno spostatevi dalla porta!» ci apostrofò con tono apparentemente seccato. «Scusaci, ma...» la mia giustificazione, però, si interruppe non appena scoprii che il ragazzotto era il figlio del mio amico.
«Non ti ho risposto male perché ero nel torto» gli dissi prontamente «ma adesso devi pagare pegno.» La mia proposta ebbe immediatamente il beneplacito del mio amico: scroccare una consumazione al proprio figliolo non è cosa semplice.
«Mi sembravate fuori di testa, con il naso all'insù e tutti presi a decifrare i disegni delle lucine» ci disse il ragazzotto dopo aver raccolto le nostre ordinazioni e averle passate al barista. In effetti l'immagine era piuttosto vicina al vero, ma non mi andava di fare la figura del citrullo. Anche perché, forte della sua bravata, il ragazzotto stava raccontando la faccenda anche a un paio di altri avventori e sembrava proprio che la cosa destasse molta ilarità. Dovevo trovare una via d'uscita dignitosa.
«Immagino che tutti quanti abbiate il navigatore in macchina...» buttai lì quasi con indifferenza. La constatazione era talmente avulsa dal contesto che riuscì a calamitare l'attenzione.
«Certo, ma cosa c'entra con i disegni delle lucine?» chiese uno degli avventori abboccando all'esca.























Tavola tratta dal terzo volume dell'opera "Prodromus Astronomia"
di Johannes Hevelius pubblicato nel 1690 a Danzica.
La tavola riproduce l'intero Emisfero Australe.
(Fonte: Atlascoelestis)

«Un po' di pazienza. Prima che ci fosse il navigatore o si potesse consultare Googlemap, come si faceva a non perdersi nei lunghi viaggi?» gli chiesi a bruciapelo. «Beh, si usavano le cartine. Mi ricordo che le ho usate anch'io fino a qualche anno fa.» «Giusto. E prima ancora, nelle epoche in cui non esistevano mappe e carte geografiche?» La domanda lo mise per un attimo in difficoltà. Poi trovò una via d'uscita: «Immagino che i viaggiatori si ricordassero le caratteristiche del territorio: prima vai in direzione di quel monte, poi verso quell'altro... E' corretto?»
«Vedo che ragioni bene. Ma c'è un'ultima domanda: come facevano di notte?» A toglierlo dalla evidente difficoltà ci pensò il figlio del mio amico: «Di notte non si viaggiava. Troppo elevato il rischio di perdersi e di fare brutti incontri.»
«Peccato che non tutti potessero farlo» incalzai. «Pensa a chi viaggiava per mare. La sua situazione era davvero critica. Non solo era obbligato a spostarsi anche di notte, ma in più non aveva mai, neppure di giorno, nessun punto di riferimento che lo potesse indirizzare. Tutt'intorno un'immensa distesa d'acqua, perfettamente identica in ogni direzione. Una gran brutta situazione, vero?»
«Ah, ho capito dove vuoi arrivare!» esclamò raggiante l'altro ragazzotto del gruppo, rimasto in silenzio fino a quel momento. «Gli antichi marinai guardavano le stelle e riuscivano così a orientarsi. Ecco cosa c'entra con i disegni delle lucine: le costellazioni.»
Conclusione corretta. Espressa forse in modo un po' ermetico, ma comunque sufficientemente chiara da bruciarmi senza rimedio il finale che avevo preparato. Il mio goffo tentativo di giustificare le chiacchiere sulle lucine intavolate con il mio amico quella sera si stava sgretolando. Mi venne allora l'idea per un estremo colpo di coda. «Benissimo, vedo che te ne intendi. Qual è, secondo te, la maggiore differenza tra i disegni delle luminarie e quelli delle costellazioni? Al di là del fatto, ovviamente, che qui abbiamo lampadine appese qualche metro sopra la testa e là, invece, si parla di stelle immerse nelle profondità del cosmo...»
La domanda non era affatto delle più semplici. Ma contavo sulla freschezza mentale dimostrata fino a quel punto dai miei interlocutori. «Non saprei...» azzardò il primo «Forse che i disegni delle luminarie sono più evidenti e facili da riconoscere di quelli delle costellazioni?»
«Questo è vero e dipende dal fatto che ogni lampadina di una luminaria la mettiamo al posto più adatto per completare il disegno, mentre per le stelle non possiamo far altro che accettare la posizione che esse hanno, il che spiega perché per alcune costellazioni ci vuole una bella dose di fantasia. La risposta è corretta, ma non è quella che avevo in mente io. C'è una differenza ancora più evidente.»
Prima che il silenzio calato sul gruppetto rovinasse il piano, buttai lì uno spunto di riflessione: «A che distanza sono le lucine delle luminarie da noi?»
Il suggerimento suscitò l'immediata reazione del secondo ragazzotto: «Ma avevi detto che era evidente che le stelle fossero più distanti e dunque non dovevamo considerarlo...» «Vero. Ma io ti sto suggerendo di pensare alla distanza di ogni singola lucina.»
«Le lucine sono tutte alla stessa distanza da noi. Ma anche le stelle di una costellazione sono alla stessa distanza da noi. Non vedo nessuna differenza.» ribadì, convinto, il mio interlocutore.
«E' qui che ti sbagli. I disegni delle luminarie sono figure tracciate con cura, mentre i disegni delle costellazioni sono figure assolutamente occasionali. Le stelle di una costellazione non si trovano quasi mai alla stessa distanza dalla Terra. Noi le vediamo vicine in cielo solamente per un allineamento prospettico.»
«Scusami, ma mi sono perso...» mi interruppe il mio amico, anch'egli preso da quella interessante disquisizione.
«Facciamo finta che gran parte delle lucine delle luminarie si brucino e ne rimanga accesa solamente qualcuna all'inizio della via e qualcun'altra alla fine. Immaginiamo ora di metterci all'inizio della via e guardare le lucine superstiti. Non sono tutte alla stessa distanza, ma con un po' di fantasia potremmo ugualmente ottenere una qualche figura. Per le costellazioni è lo stesso.»
«Dunque le stelle che formano una costellazione non sono in alcun modo legate tra loro...» concluse, correttamente, il figlio del mio amico. «Esatto. Tranne rarissimi casi è proprio come hai detto tu. Vista la vicinanza in cielo, ci viene naturale collegarle tra loro. A fregarci, però, è il fatto che a occhio nudo ci è impossibile riuscire a stimare le loro reali distanze.»

Con quell'osservazione conclusiva anche il mio piano era giunto a termine. Mancava solamente la battuta finale: «Come vedi, caro ragazzo, quando due persone stanno con il naso all'insù a guardare puntini luminosi non necessariamente sono fuori di testa.» Strizzai l'occhio al mio amico e, mentre il figlio pagava il dovuto, ce ne uscimmo a testa alta dal bar. Stavolta, però, ce ne guardammo bene dal soffermarci a osservare le luminarie.

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09 - Freccette e dinosauri...

«Bel consiglio che mi hai dato...»
La voce, proveniente dall'angolo del bar dedicato al gioco delle freccette, mi lasciò per un momento sorpreso. Mi apparve subito evidente che il destinatario del messaggio dovevo per forza essere io: il bar era praticamente deserto e lo stesso barista, dopo avermi servito il caffè, era scivolato verso la zona delle freccette. La voce mi era famigliare, ma non riuscivo proprio ad associarla a nessun volto noto. Terminato il caffè mi diressi dunque anch'io da quella parte. Mistero risolto. A stuzzicarmi era stato un amico al quale, qualche giorno prima, avevo consigliato di visitare una mostra sui dinosauri appena installata in città. Ero convinto che suo figlio, un ragazzino sveglio di sette-otto anni, avrebbe apprezzato. Evidentemente mi ero sbagliato.
«Allora ti ho proprio consigliato così male?» chiesi con un tono di voce dimesso, preparando il terreno a eventuali scuse e cercando già, nel frattempo, qualche possibile giustificazione per salvarmi la reputazione.
«Assolutamente no. Mio figlio è stato felicissimo. Io e mia moglie un po' meno, costretti a girare per ore in mezzo a riproduzioni di dinosauri, poster, postazioni video, plastici e pezzi di ossa gigantesche. Una faticaccia che siamo riusciti a interrompere solo per mangiare un boccone al volo...»























Ricostruzione pittorica, opera dell'astronomo-artista Donald Davis,
dell'impatto cosmico  che 65 milioni di anni fa innescò l'ultima
grande estinzione di massa sul nostro pianeta.  Immane tragedia
per i dinosauri e altre specie, ma trampolino di lancio per i mammiferi

(Crediti: Donald Davis 1991)

Sorrisi, mascherando alla perfezione un sospiro di sollievo: la mia reputazione era salva. «Certo che sono stati ben sfortunati quei bestioni...» riprese il mio amico mentre, con una freccetta in mano, oscillava il braccio prendendo la mira. «Se ne stavano tranquilli e all'improvviso: bum...» Per rendere più significativa la cosa aveva fatto coincidere il “bum” con il lancio della sua freccetta. Un gesto sicuramente d'effetto - e anche un bel tiro, tra l'altro - dopo il quale, soddisfatto, aveva concluso: «... Fregati da quella montagna spaziale che gli casca in testa. Dov'è che è caduta? In Messico, vero? Se solamente fossero stati un po' più in là...» 
Qualcosa non quadrava nel suo ragionamento, così decisi di integrare le lacune: «Sì, in Messico, nella penisola dello Yukatan. Comunque non è certo andata meglio ai dinosauri dall'altra parte del mondo. Anche loro ci hanno rimesso le penne. D'altra parte erano stati i dominatori della Terra per almeno 160 milioni di anni, prima o poi dovevano aspettarsela che sarebbe arrivato anche per loro il momento di farsi da parte.» Proprio non mi andava di tirare in ballo la faccenda delle estinzioni periodiche e, per mia fortuna, l'argomento venne ignorato. Non era però passata inosservata la mia osservazione che quel drammatico episodio avesse coinvolto l'intero pianeta.
«Ma non sono morti per la caduta del meteorite e per gli incendi?» chiese sospettoso il mio amico.
«Molti sicuramente sì, » risposi «ma la maggioranza morì per la fame e il freddo. Tutta colpa della smisurata energia di quell'asteroide, in grado di sollevare così tanta polvere in atmosfera da bloccare la luce del Sole per mesi. Niente luce, niente alberi, niente cibo per gli erbivori e, di conseguenza, niente prede per i grossi carnivori. Al buio e al freddo: un lento massacro.»
«Accidenti, ma l'asteroide da dove aveva preso tutta quell'energia? Sarà stato anche grosso, ma per combinare un simile disastro...» commentò il mio amico, interessato. Evidentemente non aveva ancora realizzato l'impressionante carico di energia di un proiettile cosmico. La freccetta che aveva in mano mi diede un'idea per provare a spiegarglielo.
«Quanto pesa quella freccetta, una ventina di grammi?» gli chiesi.
«Sedici.» precisò il barista, anch'egli interessato alla faccenda.
«Ottimo. Ora, avete presente la famosa pistola 44 Magnum, quella dei film? I suoi proiettili pesano proprio come una freccetta. Eppure, se io mi mettessi qui con quella pistola e facessi fuoco sul bersaglio le conseguenze sarebbero molto differenti, non trovate? Qual è, secondo voi il motivo?»
«E' ovvio» rispose prontamente il mio amico «la pistola lancia i proiettili con una velocità molto maggiore.»
«Risposta esatta. In fisica si parla di energia cinetica, cioè energia che un oggetto possiede a causa della sua velocità. Per calcolarla bisogna sì tener conto di quanto è pesante un oggetto, ma soprattutto della sua velocità...»
«E questo cosa c'entra con l'asteroide dei dinosauri, a che velocità vuoi che andasse una montagna così grande? A voler esagerare sarà andata a mille chilometri all'ora...» mi interruppe il mio amico con un mezzo sorriso.
Ecco dov'era il punto da chiarire: era la velocità il dato mancante. Decisi, visto il tema, di utilizzare una terapia d'urto.
«Quella montagna grande più dell'Everest che, dalle profondità dello spazio, aveva preso di mira il Messico filava alla velocità di almeno una ventina di chilometri al secondo. Traduco in termini più famigliari: l'asteroide dei dinosauri viaggiava ad almeno 72 mila chilometri all'ora. Trenta volte più veloce di un aereo militare supersonico. Ti basta?» L'espressione sul volto del mio amico e del barista non lasciava dubbi. Finalmente era chiaro come quella montagna spaziale avesse potuto combinare un disastro così spaventoso. Ne approfittai per aggiungere un'ultima considerazione.
«Gli astronomi che hanno stimato l'energia di quell'impatto parlano di cento milioni di Megatoni, vale a dire l'energia sviluppata da centomila miliardi di tonnellate di tritolo fatte detonare tutte quante assieme. Per darvi un'idea di quanto spaventosamente grande sia questa montagna d'esplosivo, se la dividiamo in parti uguali a ogni abitante della Terra ne spetterebbero 14 mila tonnellate.»
«Accidenti, adesso sì che la faccenda mi è chiara. Come hai detto prima, dev'essere stato un vero inferno» esclamò il mio amico. Poi, rimettendosi in posa con un'altra freccetta e prendendo la mira, concluse: «Beh, l'importante è che di simili montagne non ce ne sia più nessuna in viaggio verso la Terra...»

Lasciai che la sua conclusione cadesse nel vuoto. Non era proprio il caso di mettersi a parlare dell'eventualità tutt'altro che remota di un impatto cosmico. Magari un'altra volta. Tanto più che con il nuovo colpo - un triplo venti - il mio amico aveva magistralmente chiuso la partita e il barista esigeva a tutta forza la rivincita.

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10 - Gran Premio

Nulla mi concilia il sonno più delle gare di automobilismo. Non è che non mi piacciano, è che molto spesso, dopo aver seguito con molta partecipazione le concitate fasi della partenza, il susseguirsi monotono dei giri, il tono dei commentatori televisivi e il suadente rumore dei motori hanno su di me un benefico effetto soporifero. Probabile, però, che sia semplicemente colpa dell'orario, che spesso coincide con quello del dopo pranzo... Una domenica, appisolatomi come al solito in poltrona nel corso di un particolarmente noioso Gran Premio di Formula 1, avevo deciso di scuotermi da quel torpore con l'aiuto di un buon caffè. Raggiunto dunque il bar, constatavo che anche lì il televisore era sintonizzato sul Gran Premio. Quattro in tutto gli avventori. Uno, il più giovane, era tutto preso - credo - a imparare a memoria la Gazzetta, visto che sfogliava le pagine avanti e indietro e prendeva dettagliati appunti su un foglietto, proprio come si fa quando si è nell'imminenza di un esame (lontani ricordi...). Gli altri due erano presi dalla gara. Mentre gustavo il mio caffè i bolidi sfrecciavano sul rettilineo della pista e la speed trap indicava per ognuno di essi la velocità di punta. Valori da paura per noi miseri automobilisti di tutti i giorni spesso alle prese con i patemi di una possibile sanzione per avere sventuratamente superato i cinquanta su un tratto di strada molto meno tortuoso e trafficato di quel tragitto di gara. Probabilmente tutto dipende del fatto che le nostre quotidiane speed trap abbiano il nome decisamente meno altisonante di autovelox. Ma non divaghiamo. Le prestazioni dei piloti e dei bolidi erano opportunamente sottolineati dalle espressioni di apprezzamento e dai commenti dei due spettatori, evidentemente grandi estimatori delle gare di motori.























Il record di velocità per un mezzo sulla terraferma spetta al veicolo 
Thrust SSC (SuperSonic Car). Il 15 ottobre 1997, con ai comandi
il pilota della RAF Andy Green, raggiunse nel Black Rock Desert 
del Nevada la velocità di 1227,98 km/h, superando dunque
la barriera del suono (Mach 1,02).

(Fonte: WallpaperUp)

Il nuovo record per quella pista, da qualche parte intorno ai 324 chilometri orari, aveva reso particolarmente euforico uno dei due, mio coetaneo, che aveva pensato bene di coinvolgere anche me in quell'euforia. Avvicinatosi, mi aveva pazientemente spiegato che non si trattava di un record assoluto per una gara di Formula Uno. Quello apparteneva al brasiliano Antonio Pizzonia, che nel settembre 2004 a Monza aveva toccato i 368,8 km/h. Interpretando il mio silenzio come un invito ad approfondire il discorso - in realtà era tutta colpa del caffè che non aveva ancora iniziato il suo benefico effetto - stava per lanciarsi sulla Formula Indy e sulle velocità ancora più elevate che la caratterizzano. Fortunatamente la caffeina cominciò a fare il suo dovere e realizzai che non me la sarei cavata in tempi rapidi. Mancavano ancora molti giri al termine del Gran premio e di sicuro quel mio conoscente non se ne sarebbe andato dal bar prima d’allora. Io avrei potuto senza problemi rinunciare all’epilogo della gara, ma dovevo comunque inventarmi una via d’uscita. E poi dovevo vendicarmi di quella dotta - ma non richiesta - lezione di storia dell'automobilismo. 
Fu così che buttai lì un provocatorio «Poca roba, noi adesso stiamo andando più veloci». Approfittando del suo attimo di smarrimento, iniziai a colpire duro con una semplice argomentazione: «Quando eravamo a scuola - nell'altro millennio - ci avevano insegnato che il metro era la quarantamilionesima parte del meridiano terrestre. Te lo ricordi, vero? Questo vuol dire che, se consideriamo la Terra una palla perfettamente sferica, anche la lunghezza dell'Equatore è di 40 mila chilometri...»
Insomma, la presi molto da lontano. Non dovevo insospettire il mio ignaro interlocutore. Incoraggiato dalla sua attenzione, proseguii nella mia manovra: «Immagina ora una persona che se ne sta all'Equatore. Per effetto della rotazione della Terra su se stessa, quella persona ogni giorno compirà un giro completo, cioè 40 mila chilometri. Dato che il giorno è di 24 ore, possiamo calcolare la sua velocità, cioè quanti chilometri compie ogni ora. Una semplice divisione - 40 mila diviso 24 - ci dice che la sua velocità è di circa 1666 km/h, quattro volte e mezzo più veloce di Pizzonia a Monza».
Il calcolo non era difficile e l’aver buttato lì il risultato accompagnandolo con un “circa” lo rendeva meno problematico da digerire. Il mio interlocutore rimase in silenzio. Non so se stesse rifacendo i conti o se cercasse disperatamente un appiglio per controbattere o per accusarmi di averlo preso in giro. Non era certo mia intenzione aspettare la sua reazione per scoprirlo. Approfittando biecamente del suo momentaneo smarrimento, dunque, pagai il caffè e me ne ritornai - gongolando - a casa.
Nel tragitto mi venne in mente che avrei potuto benissimo allargare quel ragionamento anche al moto della Terra intorno al Sole (circa 940 milioni di chilometri percorsi in 365 giorni) e stendere definitivamente quel mio amico e Pizzonia con i 107˙300 km/h risultanti. Troppo difficile. Per farlo avrei dovuto spiegargli che l'orbita della Terra è più o meno un cerchio con un raggio di 150 milioni di chilometri e già per trovarne la lunghezza avrei dunque dovuto appellarmi a un concetto di geometria e al pi greco. Avrei poi dovuto trasformare i giorni in ore: d'accordo, è una semplice moltiplicazione, ma sarebbe stato indispensabile metterla per iscritto e fare il conto. Insomma, avrei rischiato seriamente di perdere la sua attenzione vanificando in tal modo la mia sottile vendetta. Meglio fermarsi al moto di rotazione.
Un po’ mi spiaceva non aver potuto cogliere appieno la reazione del mio conoscente e valutare l’impatto della mia strategia. Ancora oggi, però, sono pienamente convinto che, rimanendo, il rischio sarebbe stato troppo elevato. Che, comunque, avessi in qualche modo colpito nel segno lo scoprii qualche tempo dopo. Stesso bar, stesso orario, stessi bolidi che sfrecciavano in pista e stesso insinuante torpore da combattere. In quella perfetta riproposizione di una situazione già vissuta c'era anche quel mio conoscente. Mi salutò cordialmente, ma non mi parlò più di Pizzonia. Nella breve pausa pubblicitaria ci limitammo a scambiare due parole su di un fallo da rigore nella partita della sera precedente.

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11 - Calciobalilla esagerato

Le grida e i rumori che quella sera giungevano dalla saletta con il biliardino erano particolarmente intensi. Abituato agli schiamazzi degli studenti durante gli intervalli, non ero particolarmente disturbato da quegli assordanti rumori che si confondevano con grida che ben poco avevano di umano. Intendiamoci, anche mettendoci tutta la buona volontà di cui si è capaci risulta davvero complicato giocare a calcio balilla in religioso silenzio, ma da qualche giorno il rumore era abbondantemente sopra il livello di guardia. Il motivo lo si comprendeva facilmente leggendo un manifesto che campeggiava sul muro e che annunciava l'organizzazione di un torneo di calcio balilla in paese. L'avvicinarsi della fatidica data rendeva quelle fondamentali sessioni di allenamento ogni giorno di più combattute e rumorose.
Un mio amico aveva tentato di coinvolgermi nell'avventura, ma i riflessi e la vista non sono più quelli di un tempo e, non volendo rischiare umilianti figuracce, avevo declinato l'invito. Per coerenza cercavo dunque di tenermi a debita distanza dal biliardino. Quella sera, però, dato che tra i contendenti c'era proprio il mio amico, non potevo proprio ignorare l'assordante e combattuta disfida i cui echi si spingevano ben oltre le pareti del bar.
Mi avvicinai proprio mentre il devastante colpo di un terzino si stampava rumorosamente sulla parete opposta e, per un gioco di rimbalzi, sparava la pallina fuori dal campo di gioco. Un missile che fortunatamente vidi allontanarsi nella direzione opposta alla mia e che non mancò di suscitare approvazioni e commenti per la violenza del colpo.
«Che botta - commentai rivolto all'autore del colpo, il partner di gioco ingaggiato dal mio amico - peccato non fosse più centrale.»
«Hai visto che tiro - sottolineò esaltato il mio amico approfittando della breve pausa resasi necessaria per il recupero della pallina - con un colpo del genere quasi quasi si riesce a mandare la pallina in orbita.»
Stoppai subito il suo entusiasmo: «Dai, non esagerare. Se è solo un modo di dire, mi va bene. Ma se parli seriamente allora ti devo deludere: ci vuole ben altro per sparare quella pallina in orbita.»
«Dai, non fare il precisino. Lo so che qui sulla Terra è certamente impossibile, ma sulla Luna? Nei filmati che ho visto in Internet gli astronauti si muovono saltellando come se niente fosse. Cosa vuoi che sia, da quelle parti, sparare una pallina in orbita?»
«Non è per fare il pignolo. Le velocità necessarie per abbandonare la Terra e la Luna sono decisamente ben più grandi di quella che puoi raggiungere con una pallina: non ci riesci neppure se la spari con un fucile!»


















Il lancio di ogni missione spaziale deve fare i conti con 
l'attrazione terrestre. Nell'immagine la partenza, il 4 dicembre 1996,
della missione NASA Mars Pathfinder. Fu la prima
missione spaziale che trasportò sulla superficie del pianeta Rosso un rover
(Fonte: NASA)

Sapevo che il mio amico era appassionato di caccia e davo per scontato che la mia citazione avrebbe concluso il discorso lì. Proprio non mi andava di intavolare un dibattito sulla velocità di fuga. Almeno, non quella sera. Non avevo però prestato sufficiente attenzione ai contendenti impegnati in quella agguerrita partita di calciobalilla. Tra loro, infatti, figurava anche un ragazzotto del paese vicino, uno sfegatato cultore e profondo conoscitore delle armi da fuoco. Alla mia citazione dello sparo col fucile fu come se una fucilata l'avesse colpito sui piedi. Si girò di scatto e sbottò: «Ma lo sai che le pallottole del fucile d'assalto M16 escono dalla canna a circa 3500 chilometri orari? E, secondo te, questo non basta a farle schizzare via dalla Luna?»
«Assolutamente no» risposi con decisione.
Nonostante per quella sera non avessi proprio nessuna intenzione di intavolare discorsi scientifici, mi vedevo costretto a puntualizzare. Già prevedevo che avrei finito col lasciarmi trascinare dall'argomento, suscitando l'inevitabile disappunto di chi era più interessato alla partita che non a stupide considerazioni sulla velocità di fuga. Sperando di chiudere rapidamente la conversazione, ce la misi tutta per essere il più indisponente possibile.
«Stiamo parlando di velocità di fuga, cioè della possibilità che un oggetto riesca a sfuggire alla attrazione gravitazionale del corpo celeste su cui si trova. Per la Terra questa velocità ammonta a più di 40 mila chilometri orari, mentre per la Luna è intorno agli 8400 chilometri all'ora. Dunque, come vedi, quel proiettile di M16 proprio non ce la fa neppure con la Luna.»
«Accidenti, hai ragione. Ma da cosa dipende?»
L'esperto d'armi proprio non ne voleva sapere di mollare la presa. L'argomento sembrava intrigarlo parecchio, tanto che neppure si accorse dell'occhiataccia del mio amico che, con la pallina in mano, non vedeva l'ora di riprendere la partita.
«Visto che stiamo parlando della velocità di fuga, cioè della possibilità di un proiettile di abbandonare per sempre la superficie di un pianeta, è evidente che entreranno in gioco sia la massa di quel pianeta, cioè quanto è pesante, sia le sue dimensioni. Nel calcolo, poi, entra ovviamente anche la costante di gravitazione universale...»
«E che roba è?» mi interruppe il mio interlocutore.
«Siccome la forza che bisogna vincere è quella di gravità, quel numero ci permette di fare i conti in modo corretto.» mi limitai a rispondere.
«Allora ogni pianeta ha la sua velocità di fuga.» commentò il mio amico che sperava in quel modo di far giungere il più rapidamente possibile al termine la conversazione.
Ignorai il suo intento e presi la palla al balzo: «Esatto. Quel proiettile di M16 di cui stiamo parlando, per esempio, possiede il doppio della velocità necessaria per abbandonare Cerere, il corpo di maggiori dimensioni della nutrita pattuglia degli asteroidi.» Evitai accuratamente di mettere sul tappeto la faccenda della sua promozione a Pianeta nano, molto meglio considerarlo nella sua vecchia classificazione.
Il nuovo accenno all'M16 aveva riacceso l'interesse dell'esperto d'armi. Per dimostrare che aveva capito osservò:
«Ma allora ci sono corpi celesti dai quali si può andare in orbita anche semplicemente correndo a piedi.»
Non potevo deludere le sue aspettative: «Certo. Sicuramente hai sentito parlare del grosso asteroide che milioni di anni fa ha ammazzato i dinosauri...» Aspettai un riscontro e poi, confortato da un movimento del capo, proseguii: «Secondo gli astronomi si trattava di un oggetto di 10 chilometri di diametro. Facendo i conti si può vedere che la sua velocità di fuga è di poco superiore ai 20 chilometri orari, più o meno la velocità media che tengono i maratoneti di alto livello. Un'andatura impossibile da mantenere per lungo tempo per noi corridori della domenica, ma che per un breve tratto si può raggiungere anche senza essere il campione del mondo.»
Il rumore della pallina rimessa in gioco decretò senz'ombra di dubbio che l'intervallo lo si doveva considerare inesorabilmente terminato. Il torneo di calciobalilla era alle porte e non si poteva perdere inutilmente tempo a parlare di robe astruse.
Nel volgere di neppure un paio di minuti i decibel ritornarono ai livelli precedenti. Peccato, stavo cominciando a prenderci gusto e già mi ero illuso della possibilità di poter parlare dei buchi neri e della loro velocità di fuga maggiore di quella della luce. Occasione mancata? Forse no. Probabilmente avrei corso il rischio di dover sperimentare sul campo la velocità di fuga dal bar.

Undefined
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12 - La cartolina

Estate, tempo di vacanza per chi può e tempo di invidia per chi vorrebbe. E nulla suscita maggiore invidia di una bella cartolina illustrata che giunge dai posti più remoti del mondo, spedita “agli amici del bar” da un fortunato viaggiatore. Nonostante MMS, mail, facebook e cinguettii vari, un'ammiccante cartolina non passa mai di moda, non foss'altro per l'innegabile comodità di poterla spiattellare pubblicamente sul naso di tutti quanti. Davanti alle spiagge incontaminate - spesso arricchite dalla interessante fauna bipede che le popola - non puoi far finta di niente. Il messaggino lo puoi cancellare, la cartolina no. Almeno, non fino a quando il mittente, ritornato alla base, non ha reso edotta tutta la compagnia su quanto gli è capitato in vacanza. Un inevitabile tributo richiesto dalla vita sociale al bar.
L'ultima in ordine di tempo a comparire sulla scansia degli aperitivi proveniva da Dubai. Stranamente, anziché mostrare panorami naturali, proponeva un'interessante veduta degli incredibili palazzi che, alimentati a petrolio, stanno sorgendo come funghi da quelle parti. Conoscendo il mittente, idraulico di professione ma appassionato cultore di costruzioni avveniristiche, la scelta di quel soggetto non era poi così strana. Questo non toglie che, comunque, si discostasse un bel po' dalle cartoline da lui spedite gli anni precedenti...


















L'oggetto più lontano che possiamo scorgere in cielo senza l'aiuto di
un telescopio è la Galassia di Andromeda. La luce che raggiunge il nostro
occhio ha iniziato il suo viaggio circa due milioni e mezzo di anni fa
(Crediti immagine: Adam Evans)

Qualche giorno dopo l'arrivo della cartolina, passato dal bar per il consueto caffè mattutino, mi imbattei proprio nell'idraulico, tornato da Dubai solo da una manciata d'ore. Nonostante il viaggio da smaltire mi sembrava in splendida forma e stava già tenendo banco con i suoi racconti vacanzieri. Mi unii senza indugio al gruppo: ogni occasione è buona per imparare - o insegnare - qualcosa. Approfittando di un momento di pausa nei suoi racconti, lo salutai e gli dissi indicando la cartolina:
«Davvero un bel panorama. Molto meglio di quelli, un po' osé, che ci hai mandato gli anni scorsi. Stanno proprio costruendo palazzi incredibili da quelle parti.» Confidavo, stuzzicandolo sui suoi interessi, di riuscire a pilotare i suoi racconti vacanzieri verso una destinazione tutto sommato più sopportabile e pagare così la quota del mio tributo nel modo più indolore.
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Ma c'è una cosa che voglio farti vedere: trova cosa c'è di strano in queste fotografie.» Armeggiò con il telefonino e mi mostrò un paio di immagini a prima vista perfettamente identiche. Evidentemente, dato che lui insisteva nel chiedermi cosa notassi di strano, qualcosa mi sfuggiva. Buttai la spugna.
«Guarda questa costruzione qui» mi disse indicando un palazzotto sulla cartolina. «Se guardi la prima immagine vedi che c'è anche lì, ma se passi alla seconda non la trovi più. L'ultima foto l'ho scattata appena prima di partire. Dopo che avevo spedito la cartolina hanno demolito il palazzotto per fare spazio a una nuova costruzione. Una demolizione davvero rapida, vero?»
«Interessante: la tua cartolina ci ha recapitato un messaggio che era vero quando è partita, ma che si è rivelato essere in parte bugiardo al suo arrivo. A te sembrerà un fatto davvero curioso, ma con le stelle è praticamente la normalità.» Non era assolutamente mia intenzione dirottare la conversazione, ma evidentemente l'accenno alla bugiardaggine delle stelle aveva particolarmente colpito il mio amico idraulico.
«Cosa intendi dire?» si affrettò a chiedermi.
«Semplicemente che anche le stelle e tutti i corpi celesti ci mandano continuamente messaggi e cartoline che li riguardano, ma sulla loro assoluta affidabilità non è il caso di scommetterci.»
«Vuoi dire che le immagini astronomiche che vediamo in Internet e tutti i dati che vengono studiati dagli astronomi sono falsi? Mi stai dicendo che l'astronomia non è una scienza affidabile?» sbottò il mio amico con un tono tra l'incredulo e lo sbigottito.
«Assolutamente no. Sto semplicemente sottolineando il fatto che, come la tua cartolina da Dubai, anche tutte le cartoline che ci arrivano dai corpi celesti hanno avuto bisogno di un certo tempo per percorrere il loro viaggio. Ci sono solo un paio di differenze. La prima è che i dati astronomici viaggiano nell'Universo a una velocità decisamente più elevata di quella che normalmente caratterizza i messaggi postali.»
«Questo già lo sapevo. Viaggiano alla velocità della luce, vero?» domandò il mio interlocutore, con non poca sorpresa degli altri ascoltatori.
«Esatto: è la massima velocità possibile. La seconda importante differenza, però, è che le distanze in gioco sono incredibilmente più grandi di quella che ci separa da Dubai. Figurati che per indicarle non basta neppure l'anno luce, cioè la distanza che la luce percorre in un anno. Fatti due conti, un anno luce ammonta a quasi 9500 miliardi di chilometri e la stella più vicina si trova a poco più di 4 anni luce dalla Terra.»
«Ah, ma allora con l'anno luce si misurano le distanze, non il tempo...» sbottò uno del gruppo, realizzando che fino ad allora si era lasciato ingannare dalla parola “anno”.
«Proprio così. Peccato che in astronomia sia normale parlare di oggetti distanti non solo migliaia, ma persino milioni e miliardi di anni luce. Distanze per le quali non avrebbe assolutamente nessun senso impiegare il nostro famigliare chilometro.»
«E queste enormi distanze cosa c'entrano con la bugiardaggine delle stelle?» chiese l'idraulico, evidentemente intenzionato a chiarirsi del tutto le idee.
«Quando la luce di una stella comincia il suo viaggio, porta con sé le informazioni che riguardano com'è la stella in quel momento. Mentre la luce vola verso la Terra, cioè mentre la cartolina è in viaggio, alla stella può succedere qualunque cosa, ma noi non non possiamo saperlo. La cartolina, insomma, ci dice semplicemente com'era la stella quando è stata spedita. Se, per esempio, si tratta di una stella molto grande arrivata al suo capolinea, mentre la cartolina è ancora in viaggio può esplodere in quel gigantesco fuoco d'artificio che gli astronomi chiamano supernova. Noi riceviamo la sua cartolina e vediamo una stella in salute. Peccato, però, che quella stella in realtà non esista più.»
«Adesso è chiaro. Non sono le stelle bugiarde, semplicemente dobbiamo tener conto che per arrivare fin da noi i loro messaggi ci hanno messo un bel po' di tempo...» sbottò soddisfatto l'idraulico dimostrando di aver perfettamente recepito il messaggio.
«Giusto. Mettiamola così: per i loro studi gli astronomi fanno affidamento su dati che, anche se appena catturati dai loro potentissimi strumenti, sono in realtà vecchi anche di milioni di anni. Altro che l'Archeologia, la vera scienza del passato è l'Astronomia.»
«Ma questo riguarda anche il Sole?» chiese preoccupato uno degli ascoltatori, che probabilmente vedeva addensarsi nubi molto scure sulla vacanza che avrebbe dovuto cominciare di lì a qualche giorno.
«Che esploda come supernova assolutamente no. Il Sole starà al suo posto, più o meno com'è adesso, ancora per qualche miliardo di anni. Ti basta?» Interpretai la mancanza di risposta come un sospiro di sollievo e ne approfittai per aggiungere un'altra considerazione: «Tenendo conto della distanza che lo separa dalla Terra, se per ipotesi il Sole dovesse spegnersi istantaneamente - cosa impossibile, si fa per dire! - noi ce ne accorgeremmo solamente otto minuti più tardi. Il fatto curioso è che non lo vedremmo spegnersi in un solo istante: vedremmo una macchia scura al centro del disco che nel giro di due secondi o poco più si allargherebbe fino a coprirlo tutto. Tutta colpa delle dimensioni della nostra stella.»
Stavo per addentrarmi in un altro piccolo approfondimento sulla nostra stella domestica quando una piccola nuvola passò velocemente proprio davanti al Sole attenuando in modo molto evidente per qualche attimo il suo bagliore. Fu come un segnale: manco fossero telecomandati, gli occhi di tutti si rivolsero con preoccupazione a scrutare il cielo.

Ovviamente, l'intrusione della nuvola decretò la conclusione della mia pillola astronomica. Il dato positivo era che le mie parole avevano sicuramente lasciato il segno, quello meno positivo che mi toccò offrire il caffè a tutti quanti per lo spavento provocato. Anche la divulgazione astronomica ha il suo prezzo da pagare.

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13 - Blue Moon

Non sempre l'astronomia è trattata con il dovuto rispetto dai mezzi di informazione. Talvolta è la televisione che ce la mette tutta a tartassare le notizie astronomiche, ma non sono affatto rare le occasioni in cui anche la carta stampata ci mette del suo. Davanti al nero su bianco di un giornale, però, devi essere altrettanto incalzante e persuasivo per convincere il tuo interlocutore che quella notizia è una bufala.
Mattina di metà agosto. Fedele alle buone abitudini, ero uscito di casa dirigendomi al bar per il mio appuntamento mattutino con una buona tazza di caffè e - se possibile - una rapida occhiata alle prime pagine dei giornali. Grazie a un robusto temporale notturno il caldo opprimente dei giorni precedenti aveva lasciato il posto a un clima decisamente più sopportabile. Si preannunciava una bella giornata e, quello che più mi interessava, si poteva confidare in una nottata accettabile. Se non fosse stato per la Luna piena, si sarebbe potuto anche dedicare un po' di tempo allo spettacolo di un fantastico cielo estivo. Immerso in questi pensieri ero ormai arrivato quasi senza accorgermi all'ingresso del bar e lì, rischiando di pagar cara la mia distrazione, per poco non vengo travolto da un avventore che, tutto preso dalla discussione con il barista, stava uscendo senza guardare dove metteva i piedi. Scontro evitato per puro miracolo.
«Capiti proprio a fagiolo» mi apostrofò immediatamente il barista. Evidentemente era desideroso di un appoggio esterno nella sua scaramuccia dialettica col cliente, che nel frattempo aveva aveva prontamente girato i tacchi rientrando nel bar. «Stavamo discutendo del colore della Luna e ci occorre un parere neutrale.»
















In occasione di un'eclissi di Luna il nostro satellite assume una colorazione
sanguigna. Non è certo cambiato il colore della sua superficie,
ma i raggi che illuminano sono pesantemente influenzati dal loro passaggio
attraverso l'ìatmosfera terrestre

(Fonte immagine: AstroFoto)

Il colore della Luna? Tutto era nato - il resoconto completo me l'avrebbe fatto un amico presente alla discussione - da alcuni sfottò di stampo calcistico. Una situazione assolutamente normale in quel bar, come del resto in tutti i bar sparsi sull'intero territorio nazionale, trasformata però in qualcosa di quasi surreale dal fatto che si era d'agosto. Come si sa, soprattutto nella prima metà di quel mese, sul fronte calcistico c'è davvero poco su cui accapigliarsi e le discussioni prendono talvolta strane pieghe. Evidentemente, vista l'insistenza, la chiave di tutto stava in quell'articoletto a fondo pagina che il cliente mi stava sbandierando davanti agli occhi, incurante del fatto che più me lo avvicinava e più mi ritraevo, intento com'ero a mescolare lo zucchero nella tazzina.
Dopo essere finalmente riuscito a bere il sospirato caffè, guardai con attenzione il giornale: l'articolo, un pezzo senza firma probabilmente copiato pari pari dal lancio di qualche agenzia giornalistica, riguardava la “Luna blu” preannunciata per quella sera. Solo molto più tardi, sempre grazie all'aiuto dell'amico, avrei potuto realizzare che, poiché quel colore aveva a che fare con la squadra di calcio per la quale faceva un tifo sfegatato il barista, la curiosa accoppiata con la Luna aveva fatto scattare nel cliente una sua personalissima associazione di idee, giudicata così brillante, azzeccata e umoristica da indurlo a buttar lì il primo sfottò che avrebbe poi innescato la discussione. Il barista, preso alla sprovvista e non avendo altro modo di controbattere, dopo un timido tentativo di difesa aveva sentenziato che quell'articolo diceva una sciocchezza. E così i due, dal calcio, si erano trovati a parlare della Luna e dei suoi colori.
«Di preciso non so su cosa stiate discutendo, ma sicuramente dietro questa Luna blu c’è una gran bella confusione.» Il mio tono deciso aveva lasciato di stucco l'avventore e, alle sue spalle, aveva fatto accendere sul volto del barista un abbozzo di sorriso.
«Te l'avevo detto che la Luna non può cambiare colore...» Il tono saccente del barista rischiava di riattizzare la discussione. Dovevo assolutamente chiarire, prima di trovarmi inesorabilmente invischiato in una diatriba che avrebbe anche potuto protrarsi per un bel po'. E in quella fresca mattina d'agosto avevo ben altro da fare.
«Ovviamente, la Luna non può cambiar colore come un camaleonte. In particolari circostanze, però, complice la nostra atmosfera o qualche fenomeno celeste, può davvero apparire di un altro colore...» Mentre parlavo mi accorgevo che il sorriso del barista si era un po' raggrinzito e, nel contempo, il cliente aveva cominciato a dare evidenti segni di assenso muovendo la sua testa in su e in giù. Un colpo alla botte e un colpo al cerchio.
«Durante un'eclissi di Luna, per esempio, il nostro satellite si colora di un rosso sanguigno. A volte, ma è molto raro, è anche capitato che particolari polveri riversate nell'atmosfera da potenti eruzioni vulcaniche abbiano reso il suo colore davvero curioso, forse addirittura azzurrino. Ma blu proprio mai.»
Ora entrambi mi guardavano perplessi. Era la situazione ideale per buttar lì una pillola di astronomia.
«Questo modo di dire lo dobbiamo alla cultura anglosassone. Da secoli gli inglesi e gli americani indicano con l'espressione Blue Moon qualcosa di davvero insolito. Inizialmente il termine si riferiva alla terza luna piena in una stagione eccezionalmente caratterizzata dalla presenza di quattro pleniluni. Dagli anni Quaranta, complice un articolo pubblicato su una rivista di astronomia, ha però finito coll'indicare la seconda luna piena nello stesso mese. Un evento raro, insomma, in cui però il colore proprio non c'entra nulla.»
«Va bene per il colore» mi interruppe il cliente dimostrando che era stato attento alle mie parole «abbiamo capito che stavamo discutendo per nulla. Ma poco fa tu hai detto addirittura che nell'articolo c'era una gran confusione. Come mai?»
«L'articolo accenna alla seconda Luna piena del mese. Ora, per completare il normale ciclo della lunazione il nostro satellite impiega circa 29 giorni e mezzo. Il che significa che se oggi c'è la Luna piena, per la prossima dovremo aspettare un mesetto mentre la precedente l'abbiamo vista un mese fa. Prova ora a fare un semplice calcolo. Oggi è il 21 e stasera vedremo una spettacolare Luna piena. Ti sembra possibile che questo mese ce ne possa essere un'altra?»
«Assolutamente non se ne parla» disse il barista con sospetta rapidità. Mentre il cliente era immerso nei conti, infatti, lui aveva scansato la fatica consultando il calendario appeso proprio lì vicino. Anche il cliente, comunque, era arrivato all'identica conclusione: il calcolo, tutto sommato semplice, l'aveva portato a concludere che la precedente Luna piena era caduta intorno al 23 luglio e per la prossima si sarebbe dovuto attendere intorno al 19 settembre.
«Ma cosa si sono bevuti quelli del giornale?» mi chiese il barista.
Davvero difficile rispondere. Mi limitai a proporre un'ipotesi:
«Secondo me la notizia originale proveniva da una fonte anglosassone e quella fonte aveva utilizzato il modo più antico di definire la Luna blu, cioè la terza Luna piena in una stagione con quattro pleniluni. Chi ha scritto l’articolo sul giornale, però, questo non l’ha capito e così ha parlato della seconda Luna piena del mese. Facendo in questo modo una bella confusione. Pensandoci bene, visto che nell'agosto dell'anno scorso si è avuto un doppio plenilunio e anche allora si parlò di Luna blu, non escludo che proprio questa coincidenza non abbia finito col trarre definitivamente in inganno il giornalista. Eppure bastava guardare un qualunque calendario...»

L'occhiata del barista mi implorava di non svelare il suo trucco e dunque lasciai che la mia riflessione terminasse lì. Pagato il caffè, uscii e mi avviai verso casa. Mentre mi allontanavo mi raggiunse, dall'interno del bar, un nuovo accavallamento concitato di voci. Disinnescata la discussione sul colore della Luna, era evidente come qualcos'altro avesse egregiamente preso il suo posto. Allungai il passo senza voltarmi.

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14 - Il mondo a testa in giù

Gennaio è senza dubbio il mese più lungo dell'anno. Non è per i suoi 31 giorni: per questo, come insegna la famosa filastrocca, è in ottima compagnia. E' soprattutto per il fatto che ci si trova ormai inesorabilmente alle spalle il periodo delle festività natalizie e, guardando avanti, la successiva possibilità di avere qualche giorno da spendere come meglio si crede non è proprio a due passi. Sto ovviamente parlando per quei poveri mortali che, come me, provano l'insano gusto a doversi impegnare in qualunque attività lavorativa. Questo finisce coll'innescare un po' di sana invidia quando qualche amico del bar, complice la sua attività particolare, riesce a ritagliarsi un momento di vacanza proprio in quel periodo. Invidia che il fortunato, una volta tornato alla base, deve obbligatoriamente far estinguere offrendo un giro di consumazione al bar.
Stavamo dunque festeggiando il ritorno di un amico che, dopo una decina di giorni passati pancia al sole in Australia, doveva riallinearsi con il clima tutt'altro che benevolo che caratterizza la Pianura Padana a fine gennaio.
«Cosa si prova a passare dall'estate all'inverno?» gli chiesi mentre, seduto con altri a un tavolino, mescolavo la mia cioccolata calda.
«All'andata è stato facilissimo. Passare dai maglioni al costume da bagno non ha richiesto particolari fatiche. Il ritorno, invece, è stato traumatico. Sono già passati alcuni giorni, ma ancora adesso, fuso orario a parte, sono un po' scombussolato. Dovrò comunque riabituarmi in fretta: dopodomani riprendo il lavoro e per l'estate se ne riparla solo tra cinque mesi.»
Lo sguardo particolarmente pensieroso di uno del gruppo attirò la mia attenzione.
«Che c'è? Anche tu non vedi l'ora di poter spegnere il riscaldamento e godere finalmente di un clima decente?»
«Certo che sì. Ma non è a questo che stavo pensando. Avete detto che in Australia adesso è estate. Scusa, ma le stagioni non sono uguali in tutto il mondo?»
«Ma sei fuori?» lo apostrofò un altro della compagnia, mente non particolarmente brillante, ma sempre pronta a dar prova delle sue qualità in ogni momento. «Lo sanno tutti che dall'altra parte del mondo le cose sono tutte rovesciate. Se guardi un mappamondo vedi subito che in Australia stanno con la testa in giù, dunque anche le stagioni devono essere capovolte.»
Qualcosa non quadrava in quella dotta spiegazione e forse era l'occasione per provare a fare un po' di chiarezza. Mi rivolsi dunque all'erudito interlocutore e gli chiesi:
«Scusa, ma secondo te da cosa dipendono le stagioni?»
«Semplice, dal fatto che la Terra si avvicina e si allontana dal Sole. Mi stupisce che tu me lo chieda. L'hanno detto anche qualche giorno fa in televisione che la Terra non ha sempre la stessa distanza dal Sole: quando è vicina fa più caldo e quando è lontana fa più freddo. Tutto qui.»
«Ma se è vicina per gli australiani e loro si godono il caldo, come può nello stesso momento essere lontana per noi e farci provare il freddo di questi giorni?»























Confronto fra le dimensioni del Sole in Gennaio e Luglio
L'orbita della Terra non è perfettamente circolare e dunque vi è un momento
in cui il Sole raggiunge la minima distanza (perielio) e un momento in cui tale
distanza è massima (afelio). Non è certo questo, però, che determina
l'alternarsi delle stagioni sul nostro pianeta.
(Crediti immagine: Zoltàn Banfàlvi)

Silenzio. Evidentemente questo semplice ragionamento non l'aveva mai sfiorato. Decisi che, prima che si potesse affacciare qualche ardita ed esotica spiegazione, era il momento di dare un colpo decisivo.
«E' certamente vero che il percorso della Terra intorno al Sole non è un cerchio perfetto ma un'ellisse, cioè un cerchio schiacciato, e che la distanza tra noi e il Sole non è sempre uguale. Il momento in cui il Sole è più vicino, però, capita nei primi giorni di gennaio, mentre il punto di maggiore distanza si verifica all'inizio di luglio. Il che significa che la distanza tra noi a il Sole proprio non c'entra nulla con l'estate e l'inverno.»
Se, da un lato, la spiegazione aveva definitivamente stroncato il ragionamento e congelata ogni possibilità di obiezione nel mio dotto interlocutore, restava ancora da rimediare all'aria perplessa dell'altro amico che, ripresosi dal brusco trattamento che gli era stato riservato, riformulò il dubbio che lo tormentava:
«Se non c'entra la distanza del Sole, allora di chi è la colpa?»
Guardandomi intorno in cerca di un appiglio, notai che proprio in corrispondenza del bancone del bar pendevano dal soffitto un paio di faretti che, nelle intenzioni del barista, servivano a dare un aspetto più intimo al locale. Contenuti in due cilindri di metallo, i faretti proiettavano sul bancone un cerchio di luce pressoché perfetto. Ottenuta la mia parola che non avrei fatto nulla di pericoloso, il barista mi concesse di utilizzarli per una dimostrazione pratica. Chiamai dunque il mio perplesso amico al bancone e gli mostrai che, inclinando leggermente un faretto, la sua luce prendeva una forma più allungata e illuminava una più ampia porzione del bancone.
«Immagina che il faretto sia il Sole. L'intensità della luce è diversa quando giunge verticalmente rispetto a quando il faretto è inclinato. Nel secondo caso, infatti, deve coprire una superficie più grande: più lo inclini e più quella superficie diventa grande. E' come se i raggi di luce fossero in un caso più concentrati e nell'altro più diluiti. E' ovvio che potremmo ottenere lo stesso risultato tenendo il faretto fermo e inclinando di più o di meno il bancone...»
«Sicuramente. Ma cosa c'entra questo con le stagioni?» incalzò il mio amico che aveva compreso l'esempio e voleva andare al sodo.
«Nel corso dell'anno, l'inclinazione con la quale i raggi del Sole raggiungono la Terra cambia - proprio come abbiamo pensato di fare con il bancone - e sicuramente ti sarai accorto che d'estate il Sole è più alto nel cielo mentre d'inverno è molto più basso. Questo succede perché la Terra è leggermente inclinata rispetto al suo cammino intorno al Sole.»
«Interessante. Quindi un po' di mesi all'anno è come se i raggi fossero più concentrati e per un altro po' di mesi più diluiti, non è poi così complicato. E per l'Australia come funziona?»
«Anche per questa domanda la spiegazione è altrettanto semplice. Abbiamo appena detto che quando l'inclinazione ci fa gustare il caldo dell'estate significa che il Sole è molto alto nel nostro cielo. Ma questo significa che dall'altra parte del mondo il Sole deve per forza essere basso sull'orizzonte, dunque da quelle parti sono in inverno. Semplice, no?»
«Finalmente hai chiarito il mio dubbio. Quindi la distanza non c'entra nulla...»

Mi limitai ad annuire e ritornai alla mia cioccolata prima che si raffreddasse del tutto. Durò solo un attimo, ma lo sguardo con il quale il mio amico fulminò il responsabile di quell'astrusa affermazione fu un autentico concentrato di commiserazione e rimprovero. Ben più intenso della benefica concentrazione dei raggi estivi.

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15 - Gli Americani

Chi, come me, ha le sue radici ben piantate nel secolo scorso, sa bene che gli spassosi racconti di Giovannino Guareschi non sono solamente pura fantasia. In quelle vicende, trasformate in capolavori cinematografici dalle fantastiche interpretazioni di Fernandel e Gino Cervi, c'era sì qualche esagerazione, ma ciò che si raccontava non era poi così lontano dalla realtà. Soprattutto nella sperduta provincia.
Preciso subito: non sono così datato da aver vissuto di persona quegli anni, ma sono comunque riuscito a rendermi perfettamente conto di quanto quell'epopea potesse un tempo essere stata reale. Col passare degli anni la contrapposizione tra bianchi e rossi avrebbe sempre più stemperato i toni, ma per chi fin da piccolo aveva respirato quell'aria era normale dividere il mondo in buoni e cattivi, dove il ruolo di buono lo rivestiva chi ti era stato da sempre additato come tale. Con tutto ciò che ne derivava, compresa la lettura della politica internazionale. Per farla breve: da una parte c'erano gli USA e dall'altra l'URSS che, a seconda del lato della barricata, si scambiavano il ruolo di buoni e cattivi. Incondizionatamente. Un marchio talmente potente che, a mezzo secolo e più di distanza, capita ancora di ritrovarlo in alcune persone. E non credo solamente nella sperduta provincia.
Quella mattinata di fine febbraio era stata particolarmente pesante e, per ritemprarmi, avevo deciso di concedermi un buon caffè. Mi aspettava un pomeriggio di bricolage - maledetta tapparella del soggiorno - e avevo bisogno di riprendere voglia e forze. Proprio non mi andava di perdermi in chiacchiere, volevo solo un buon caffè da gustarmi in santa pace. Povero illuso!
Non avevo neppure finito di ordinare che un conoscente, più o meno mio coetaneo, mi viene incontro agitando un giornale e con un'espressione di trionfo stampata in viso:
«Guarda qui. L'ho sempre detto che gli Americani sono ignoranti!»
Sapevo del suo passato di accesa militanza politica - a me e a molti altri avventori del bar in passato era capitato di trovarsi coinvolti in animate discussioni col lui - ma quella volta proprio non riuscivo a rendermi conto di cosa l'avesse spinto a quell'affermazione così drastica. Provai a sbirciare sul giornale, ma quello l'agitava come una bandiera allo stadio. Avrei potuto ignorare la faccenda, ma sapevo che si sarebbe comunque trattato di un semplice rinvio. Questa considerazione - unita alla prospettiva di poter rimandare di qualche minuto il mio attacco alla tapparella - ebbe la meglio e mi decisi ad affrontarlo.
«Cos'è successo, un altro Vietnam?»
«No, la politica non c'entra, c'entra la scienza. Insomma, quella roba in cui ti piace bazzicare. Tutti quanti sono convinti che l'America sia il massimo mondiale della ricerca scientifica... Guarda invece qui cosa è saltato fuori. E l'hanno è scritto nero su bianco su tutti i giornali.»




























L'astronomo reale James Bradley (1693-1762) raffigurato
dal ritrattista inglese Thomas Hudson, olio su tavola
conservato presso la National Portrait Gallery di Londra.
Oltre all'aberrazione della luce, Bradley scoprì la nutazione
dell'asse terrestre. Due scoperte fondamentali
che lo portarono ad aggiudicarsi, nel 1748, la medaglia Copley,
il più importante premio assegnato dalla Royal Society di Londra.
(Fonte immagine: National Portait Gallery)

Approfittando di un momento di quiete nello sventolamento, riuscii finalmente a impadronirmi del giornale e a individuare la sconvolgente notizia. Il giornalista riportava l'esito di un sondaggio effettuato dalla National Science Foundation, l'agenzia governativa statunitense per la ricerca e l'educazione. Secondo quell'indagine un americano su quattro non sa che la Terra gira intorno al Sole. Notizia senza dubbio interessante, che come effetto immediato ebbe però quello di indurmi a chiedermi quali risultati avrebbe portato un analogo sondaggio fatto dalle nostre parti. Potenza delle notizie: ognuno ne trae le conseguenze che vuole. Evidentemente, per il mio conoscente di rigida formazione sovietica era più importante che gli americani ne venissero fuori malconci. Avrei potuto glissare, dargli ragione e tutto sarebbe finito lì - magari mi avrebbe anche pagato il caffè - ma l'immagine della tapparella del soggiorno mi dirottò su un'altra strada.
«Effettivamente non è una bella cosa...» dissi scuotendo la testa. «Ma credo si possa in qualche modo giustificare. A differenza del moto di rotazione su se stessa, il cammino della Terra intorno al Sole non è così immediatamente dimostrabile.»
«Ma stai scherzando?» sbottò subito, quasi con orrore, il mio interlocutore. «Basta guardare l'alternarsi delle stagioni. Più chiaro di così...»
Effettivamente, qualche tempo prima, avevo intavolato proprio al bar una discussione sulle stagioni e sulla loro spiegazione, ma non ricordavo fosse presente anche quel mio conoscente.
«Vero. Ma per molti secoli le stagioni sono state comodamente spiegate dicendo che la Terra se ne stava ferma e il Sole le girava attorno. Oggi sappiamo che la descrizione non è corretta, ma questo non toglie che sia comunque perfettamente in grado di spiegare il fenomeno. Mica erano tutti scemi gli antichi!»
L'osservazione aveva evidentemente spiazzato il mio interlocutore. Mi venne spontaneo approfittare del suo momentaneo turbamento per affondare il colpo.
«Lo sai quando gli astronomi ebbero la prova concreta, osservativa, che in quel moto che coinvolgeva la Terra e il Sole era il nostro pianeta a correre? Prova a buttar lì una data. Per aiutarti ti faccio scegliere tra due risposte: nel 1600, cioè al tempo di Galileo, oppure nel 1700?»
Lo ammetto. Aver citato Galileo fu una vera carognata e il mio interlocutore cascò nella trappola: «Sicuramente nel 1600. Fu Galileo a dire che era la Terra a muoversi. Lo sanno tutti...»
«Risposta sbagliata. E' vero che fu all'epoca di Galileo che si cominciò a comprendere che il sistema Geocentrico, cioè con la Terra nel centro, dovesse lasciare il posto a quello Eliocentrico, cioè con il Sole fermo nel mezzo. Ma la prova osservativa del cammino della Terra intorno al Sole gli astronomi la raggiunsero solo nel 1728.»
«Non prendermi in giro. Scusa, ma come spieghi, allora, il cambiamento delle costellazioni nel corso dell'anno?» «Se parti dall'idea che la Terra sta ferma e tutto le gira intorno anche il susseguirsi delle costellazioni non è per nulla una cosa strana.»
«Qual è stata, allora, l'osservazione che ha chiarito tutto?» Il mio interlocutore dava prova di essere un tipo sveglio. Se avessero intervistato gente come lui ne sarebbe uscita un'indagine da eccellenza. Quasi mi spiaceva di avergli fatto lo sgambetto citando Galileo...
«La prova venne fornita da un inglese, il reverendo James Bradley. Fu un eccellente astronomo tanto che, alla morte di Edmond Halley - quello della cometa - venne nominato Astronomo reale all'Osservatorio di Greenwich, a Londra. Nel 1728 era impegnato nella caccia alla parallasse, voleva cioè misurare l'apparente spostamento di una stella rispetto a quelle più lontane dovuto proprio al moto della Terra. Aveva deciso di tenere d'occhio la stella più luminosa della costellazione del Drago e aveva rilevato che la sua posizione apparente cambiava nel corso dell'anno...»
«Beh, era quello che cercava, no?»
«Assolutamente no. Il guaio era che tutte le stelle si comportavano nello stesso modo: nel corso dell'anno, le posizioni apparenti di tutte quante descrivevano una piccola ellisse. Dato che gli spostamenti erano quasi uguali, era impossibile che tutte le stelle fossero alla stessa identica distanza. Ci doveva essere un'altra spiegazione. Fu così che Bradley ebbe la geniale intuizione che era tutta colpa del moto della Terra. Poiché la Terra si muove a folle velocità intorno al Sole, quando vogliamo osservare una stella siamo costretti a inclinare leggermente il telescopio in una direzione o nell'altra a seconda della nostra direzione di marcia, cioè a seconda della parte di orbita che la Terra sta percorrendo. Ecco perché la posizione osservata di una stella descriveva l'ellisse misurata da Bradley. Gli astronomi chiamano il fenomeno con il termine di aberrazione della luce. E' un po' come quando piove e siamo costretti, camminando, a inclinare l'ombrello per evitare di bagnarci. E più allunghiamo il passo, più dobbiamo abbassare l'ombrello.»
«Adesso ho capito. Dopo quella scoperta non c'era proprio più la possibilità di dubitare che fosse la Terra a girare intorno al Sole. Poco fa hai parlato di folle velocità: cosa intendi, mille chilometri all'ora?»
«Molto molto di più. La Terra gira intorno al Sole viaggiando a più di centomila chilometri orari. E' proprio questa alta velocità che origina il fenomeno scoperto da Bradley.»

Il mio interlocutore sembrava soddisfatto. Aveva persino dimenticato gli americani e la loro ignoranza. Si fece avanti per pagarmi il caffè, ma fui più lesto di lui. Mi sentivo in qualche modo in colpa per averlo preso in giro con la citazione di Galileo. Ovviamente mi guardai bene dal motivare la mia generosità e accettai la sua offerta che, alla prima occasione, avrebbe ricambiato.
Visto il clima favorevole ero lì lì per chiedergli se, per caso, fosse un esperto di tapparelle e avesse voglia di darmi una mano. Decisi però di soprassedere e mi incamminai, con calma, verso casa. Neppure cento metri più in là mi ero già pentito di quella sciagurata decisione.

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