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Nelle forme e nei limiti della Costituzione (art.1 Cost.)

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Marta Cartabia

Pubblichiamo il testo integrale del discorso pronunciato da Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale, durante l'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università statale di Milano. Video dell'evento a questo link: Elio Franzini (rettore dell'Università statale) dal minuto 00:26:00; Marta Cartabia dal minuto 01:07:00.

Democrazia e questione educativa

Una parola sulla scelta del tema: «nelle forme e nei limiti della costituzione» è un frammento del primo articolo della Costituzione italiana che, dopo aver definito l’Italia come repubblica democratica, afferma che «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

È un frammento che ci porta a riflettere sul significato della democrazia nell’ordinamento costituzionale repubblicano. Perché parlare qui di democrazia? Perché parlarne in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico di uno dei grandi atenei italiani, che offre percorsi di studio per ogni ramo del sapere: umanistico, tecnico-scientifico oltre che in ambito giuridico politico-sociale?

Permettetemi una breve battuta per esprimere la mia profonda gratitudine per questo luogo e per esternare il sentimento di affetto che ad esso mi lega: l’Università Statale di Milano è la mia alma mater, non solo perché qui ho ricevuto da grandi maestri i primi elementi della mia formazione giuridica, ma anche per il clima di apertura culturale e civile che si respirava nell’intera comunità universitaria di quegli anni, un clima che ha lasciato una impronta indelebile in me come in tanti suoi studenti.

Ed è proprio la memoria viva della ricchezza della vita universitaria che mi ha spinto a orientare la riflessione verso i fondamenti della democrazia, nella convinzione – di cui spero di dar ragione con le riflessioni che seguono – che la vitalità di una democrazia dipende in grande misura dalla questione – in senso ampio – educativa, in cui le università svolgono un ruolo fondamentale. Non a caso il tema dell’istruzione – l’alfabetizzazione prima, l’accesso alla scuola di ogni ordine e grado poi, fino alla formazione universitaria – è stato da sempre tra le questioni fondative delle moderne democrazie, anche se, come è stato osservato di recente, il tema dell’educazione

«è diventato, oggi, la cenerentola – economica e ideologica – delle grandi questioni, sociali, come se il futuro di un paese non dipendesse innanzitutto da quanto – e come – si investe sulle proprie risorse umane» (M. Calise, F. Mussella).

Seminare nel campo dell’istruzione significa investire nei cittadini di oggi e di domani. Un nesso strettissimo lega il destino della democrazia e quello dell’educazione: questa è l’urgenza che si pone all’attenzione di tutti.

Crisi, non declino della democrazia

Ma veniamo al tema. Siamo tornati a discutere molto di democrazia e siamo tornati a discuterne con toni preoccupati. Le democrazie costituzionali contemporanee sembrano attraversare una fase di crisi, come suggeriscono i numerosissimi studi sul tema, mostrano aspetti di fragilità, soprattutto sotto l’impatto dei nuovi media. Alcuni ipotizzano persino che si sia fatto ormai ingresso da tempo in una nuova fase, quella della postdemocrazia, secondo la fortunata espressione di Colin Crouch.

A questo proposito è bene ricordare che «crisi» non significa di per sé «declino». Un periodo di crisi può preludere a «nuovo inizio», come la storia italiana ed europea ci mostrano: dalle macerie della guerra e del totalitarismo sono nati tanto le nuove costituzioni nazionali quanto il progetto europeo che, insieme, hanno assicurato pace, prosperità e solidarietà ai popoli europei come mai prima era accaduto. Come nei passaggi delle età della vita, attraversare una fase di crisi può introdurre a una più solida consapevolezza, a condizione che, come dice Hannah Arendt torniamo a porci le domande fondamentali e proviamo a rispondere ad esse con risposte fresche, scevre da giudizi precostituiti, o da pregiudizi. E la domanda fondamentale da porci, prima di ogni altra, è che cosa sia la democrazia nel nostro ordinamento costituzionale.

In un’epoca lontana dalla nostra, ma attraversata anch’essa da cambiamenti epocali, don Luigi Sturzo rifletteva sul fatto che:

«Tutti parlano della crisi della democrazia, ma sarebbe difficile trovare due persone che siano d’accordo su ciò che è la democrazia e che possano dire allo stesso modo in che cosa consiste la crisi».

Questa è la domanda che occorre tornare a porsi: cosa intendiamo per democrazia? A cosa pensiamo quando parliamo di democrazia, al di là del noto significato etimologico per cui democrazia evoca una forma di organizzazione politica in cui il potere è affidato al popolo?

Democrazia è un termine carico di storia e di storie e oggi è una parola che evoca una pluralità di forme politiche assai diverse tra loro. La democrazia degli ateniesi non è quella degli stati liberali, e tanto meno quella degli stati costituzionali.

[Per oltre duemila anni, l’eccezione ateniese ha conquistato il suo ruolo esemplare anche grazie alla sua unicità come prodotto stabile e duraturo di un regime politico. Con l’avvento dello Stato nazionale e con l’ascesa dei parlamenti, la democrazia è divenuta quasi ovunque rappresentativa. Eppure, anche nell’ambito della famiglia delle democrazie rappresentative è stata segnalata – a ragione – una profonda distinzione tra il modello “Westminster” di tipo maggioritario e quello consociativo (Lijphart). E ancora, altro è la democrazia che affida la “sovranità al parlamento”, tipica dell’esperienza britannica, altro la democrazia costituzionale, dove i principi della Carta fondamentale limitano anche i poteri delle istituzioni rappresentative].

La storia del XVIII, XIX e XX secolo ha segnato l’espansione della democrazia, ma anche la sua profonda trasformazione. Può forse essere utile, allora, fare un piccolo esercizio di memoria, ritornare a chiederci quali siano i lineamenti essenziali della democrazia così come emergono dalla Carta costituzionale e nell’esperienza democratica dell’Italia repubblicana.

La sovranità appartiene al popolo

Il manifesto della democrazia italiana nella Carta costituzionale è contenuto nel suo primo articolo:

La sovranità appartiene al popolo.

Appartiene. La scelta di questo verbo fu oggetto di vivace dibattito e di ponderato e oculato esame. Una parte dei padri costituenti insisteva nel sottolineare che in una democrazia la sovranità non può che risiedere nel popolo. L’altra prediligeva invece l’idea di una sovranità che emana o promana dal popolo, quale fondamento di ogni potere costituito.

Al fondo di questa divergenza di vedute, si intravede la sempre irrisolta polarità tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, che ha impegnato sin dalle origini del costituzionalismo moderno i grandi nomi del pensiero politico da Rousseau a Sieyès a Madison, fino ai giorni nostri.

[L’uno, radicalmente opposto al governo rappresentativo, reputa che la sovranità non possa essere mai né alienata né rappresentata, perché risiede nella volontà generale e ivi deve permanere. Gli altri invece, sulle due opposte sponde dell’atlantico, consideravano la rappresentanza un modello superiore e più evoluto rispetto alla democrazia diretta, perché capace di affinare la visione dell’opinione pubblica attraverso la mediazione di un corpo di cittadini dediti interamente alla cosa pubblica e impegnati a orientare gli interessi individuali al bene comune (B. Manin)].

La tensione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa permane ora come allora irrisolta nel dibattito pubblico.

Per certi versi, anche oggi è opinione diffusa la convinzione che la vera età dell’oro della democrazia sia quella dell’Atene di Pericle, in cui le decisioni sui problemi politici essenziali erano demandati all’assemblea popolare composta dagli ateniesi aventi diritto di cittadinanza.

[Secondo questa convinzione la forma democratica concettualmente più pura resterebbe pur sempre quella della democrazia diretta, mentre la democrazia rappresentativa sarebbe solo un succedaneo, un surrogato di cui occorre accontentarsi per pure ragioni pratiche, legate essenzialmente alle dimensioni dello stato contemporaneo e alla complessità delle decisioni politiche. Invero gli studiosi di istituzioni politiche tendono a criticare sotto molti profili tale convinzione (Böckenförde, Luciani). Eppure la nostalgia per il “paradiso perduto” della democrazia diretta tende periodicamente a riaffiorare, anche se – come sottolinea Norberto Bobbio – lo stesso Rousseau fosse convinto che un sistema basato sulla democrazia diretta non sia mai esistito né mai esisterà, perché richiede molte condizioni difficili da mettere insieme].

L’avvento dei nuovi strumenti tecnologici e delle loro straordinarie potenzialità ha fatto immaginare l’imminente avvento della e-democracy capace di realizzare il sogno di una “global agora”, per usare una espressione di Yascha Mounk. Le potenzialità partecipative della rete hanno generato e nutrito idee come l’e- governance, l’e-decision-making, l’e-consultation: entrambe le fasi canoniche del processo democratico – input e output – sarebbero potenziate dalle nuove capacità offerte dalla rete nelle forme della e-participation e e-government.

Di là dal fatto che tali aspirazioni non sono ad oggi corroborate dai dati di esperienza, che al contrario hanno fatto emergere alcuni preoccupanti aspetti di criticità di fronte a tali evoluzioni della tecnologia che stanno profondamente trasformando la vita della polis, occorre chiedersi quale sia il rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa nel nostro ordinamento costituzionale e quali siano le ragioni a sostegno delle scelte da esso emergenti.

Nelle forme e nei limiti della Costituzione

La Costituzione non si limita ad affermare che la sovranità appartiene al popolo, ma precisa che tale sovranità popolare: «nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Quanto ai limiti della democrazia, basti qui richiamare l’insegnamento intramontabile di Montesquieu: ogni potere – politico, economico o giuridico – che non conosca limiti strutturali diventa facilmente tiranno. Sicché occorre che il potere limiti il potere. Non si sottrae a questa legge delle umane vicende neppure l’esercizio del potere parte del popolo e della sua sovranità: il primo dato da sottolineare è che nella Costituzione italiana la sovranità è popolare ed è limitata. Il più potente limite apposto dalla Costituzione italiana e dalle altre Costituzioni nazionali del secondo dopoguerra alle strutture democratiche è la garanzia delle libertà e dei diritti della persona. Diciamolo con Tzvetan Todorov:

«il popolo è e rimane sovrano, ma il suo potere è limitato: deve fermarsi alle frontiere della persona. La relazione che si stabilisce tra sovranità del popolo e libertà della persona è quella di una reciproca limitazione».

Per assicurare questi diritti nel secondo dopoguerra, le Costituzioni si sono dotate di Corti costituzionali – giurisdizioni costituzionali delle libertà, nelle parole di Mauro Cappelletti – chiamate a giudicare ed eventualmente annullare le leggi, pur democraticamente approvate dal Parlamento, che contrastino o comprimano i diritti della persona e gli altri principi costituzionalmente garantiti.

È affidato dunque anzitutto alla Corti costituzionali il compito di garantire il rispetto dei confini di ciascun potere, l’uno verso l’altro, e di ciascuno di essi nei confronti dei diritti della persona.

Quanto alle forme in cui si esprime la sovranità popolare, la democrazia voluta dalla nostra Costituzione trova il suo asse portante nella forma della democrazia rappresentativa.

L’architettura della forma di governo prescelta è quella parlamentare, che vede nell’assemblea rappresentativa il perno istituzionale a cui sono affidate non solo la funzione legislativa, ma anche l’elezione del capo dello Stato e il potere di conferire e ritirare la fiducia al governo, oltre che di procedere, all’occorrenza e secondo le procedure aggravate a ciò destinate, anche alla revisione della stessa carta fondamentale. È dal Parlamento che muove il circuito democratico, che legittima l’azione degli altri poteri, compresa l’amministrazione e la giurisdizione, pur sempre vincolati al principio di legalità e al rispetto della soggezione del giudice alla legge, atto tipico del parlamento.

Per descrivere il rapporto tra la democrazia rappresentativa e gli istituti di partecipazione diretta del popolo, Massimo Luciani ha usato l’efficace immagine del tronco e dei rami: sul tronco rappresentativo la Costituzione ha opportunamente innestato alcuni rami “partecipativi”.

Il tronco e i rami: l’opzione fondamentale della Carta costituzionale trova il suo sostegno portante nel tronco della democrazia rappresentativa, e lo ha corredato da alcune, delimitate, forme di partecipazione diretta.

Il referendum abrogativo di cui all’art. 75 Cost. è l’unico referendum in materia legislativa che sia sopravvissuto al dibattito in assemblea costituente, a partire da una ben più ampia e articolata proposta presentata all’inizio dei lavori da Costantino Mortati. Sopravvissuto in forma puramente abrogativa, il referendum incontra a sua volta una serie di limiti stabiliti nel testo della Costituzione ed interpretati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale sin dalla notissima decisione n. 16 del 1978: così non si possono ammettere referendum che riguardano alcune tipologie di leggi – le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di ratifica ed esecuzione dei trattati internazionali, nonché altre leggi “costituzionalmente necessarie”. Ma il primo fra tutti i limiti apposti allo strumento referendario è quello derivante la sua natura meramente abrogativa: il costituente ha inteso affidare al popolo solo il compito di demolire, in tutto o in parte, le leggi approvate dal Parlamento, non già di sostituirsi ad esso. Come osserva Maurizio Fioravanti, l’assemblea costituente ha preso le distanze dalla impostazione giacobina del 1793, in forza della quale «il popolo delibera sulle leggi». Nella Costituzione italiana il popolo può svolgere solo una funzione correttiva, ma non mai sostitutiva rispetto al legislatore.

[La giurisprudenza costituzionale ha poi consentito che l’abrogazione referendaria possa investire intere leggi o interi articoli di legge e persino singole proposizioni o singole parole. Ma ha anche da tempo chiarito che c’è un limite a quesiti che tendano a “ritagliare” le leggi esistenti: occorre che il testo della legge da abrogare non diventi un mero pretesto per ottenere uno obiettivo ad essa estraneo, cioè che dalla proposta abrogazione non risulti un testo radicalmente diverso, del tutto avulso da quello originario. Come ha scritto di recente Valerio Onida: «Non si può ammettere che il quesito referendario da domanda di abrogazione parziale di una legge in vigore si trasformi in una proposta di “ricomposizione” di un testo del tutto nuovo», come fosse un gioco di società]

È in questa prospettiva, e solo in questa prospettiva, costantemente seguita dalla Corte costituzionale in applicazione dei principi costituzionali, che deve intendersi anche la recente decisione n. 10 del 2020 riguardante una proposta di referendum in materia elettorale, ritenuto inammissibile proprio perché non rispettava il limite costituzionale derivante dalla natura meramente abrogativa dello strumento.

La Costituzione, dunque, prevede alcune forme di partecipazione popolare diretta, ma con una serie di limiti. L’ordinaria vita politica e democratica si svolge, secondo l’impianto della Costituzione vigente, nelle forme della democrazia rappresentativa.

Quali sono le ragioni di questa scelta?

Forme della democrazia e pluralismo sociale

[Spesso si è fatto leva su ragioni pragmatiche, di pura realizzabilità, che pure non sono del tutto prive di pregio: gli stati nazionali moderni sarebbero incompatibili con la democrazia diretta anzitutto per dimensioni e numeri. Ma queste ragioni non appaiono più sufficienti e convincenti alla luce delle potenzialità della rete.]

Vorrei accennare a due considerazioni che mi pare possano rendere ragione della perdurante centralità della democrazia rappresentativa nel quadro costituzionale vigente.

La prima, potrebbe essere riassunta in questi termini: anche la democrazia diretta (o partecipativa) ha bisogno della democrazia rappresentativa. In effetti, le consultazioni popolari non si attivano per autoconvocazione, ma per l’azione di alcuni rappresentanti: il comitato promotore, le regioni, una quota di parlamentari, ad esempio. In un bel saggio pubblicato in Italia nel 1985, Böckenförde osservava che la volontà popolare ha modo di esprimersi solo in quanto essa sia interrogata e può esprimersi solo in quanto essa sia sollecitata. Pertanto, anche la democrazia diretta ha bisogno di rappresentanti e di leader che convochino la consultazione popolare e orientino le preferenze del popolo. In fondo, nelle forme della cosiddetta democrazia diretta, il popolo è chiamato ad accettare o a rifiutare, ad approvare o disapprovare con un sì o con un no, in ogni caso a reagire alle domande che gli sono poste: l’agenda è pur sempre nelle mani dei rappresentanti, mentre la volontà popolare ha sempre la natura di risposta e presuppone l’esistenza di leader e di gruppi dirigenti che assumano una iniziativa e poi attuino quanto indicato con il responso popolare. L’autogoverno puro non potrebbe perciò darsi in alcun modo senza l’ausilio di rappresentanti in posizione di leadership. Non a caso, come è stato di recente osservato, anche le nuove forme di “democrazia diretta” rese possibili dal web, che pure incentivano di certo la partecipazione dal basso, si combinano anche con un forte dirigismo dall’alto e una forte organizzazione verticistica:

[«se i web-partiti scommettono sulla esaltazione del cittadino e dell’autogoverno quasi anarchico e assembleare, in un quadro di individualismo diffuso, sono diventati al tempo stesso il canale per l’affermazione di un leader carismatico e spesso onnipotente» (M. Calise e F. Mussella).]

La seconda, e forse ancor più decisiva ragione che può spiegare la centralità della democrazia rappresentativa nell’ordinamento costituzionale, attiene all’idea di popolo o, se si preferisce, di società presupposta dal testo costituzionale.

Un sistema di democrazia diretta prende le mosse dalla tacita premessa che sussista una volontà popolare unitaria che si suppone coincida con l’interesse collettivo. Il popolo sarebbe un’entità omogenea capace di dar voce a una unica volonté générale, che viene a coincidere con quella della maggioranza.

La democrazia rappresentativa presuppone piuttosto un pluralismo sociale e politico, e istituisce meccanismi per raggiungere una unità a partire da una pluralità.

La Costituzione italiana – al pari di altre – pone a fondamento della propria ordinata esistenza la pluralità interna alla società: il popolo presupposto dalla Costituzione vuole emergere in termini plurali, come ha recentemente sottolineato Andreas Voßkhule a proposito della omologa Legge fondamentale tedesca.

Numerose sono le tracce reperibili nel testo costituzionale che lasciano trasparire i tratti pluralistici della fisionomia di quel popolo a cui appartiene la sovranità, secondo l’art. 1 della Costituzione.

Le formazioni sociali in cui si svolge la personalità di ciascuno, incastonate nell’art. 2; le associazioni di ogni genere e natura, protette dall’art. 18; le confessioni religiose (articoli 7, 8, 19, 20); i sindacati (articolo 39) e i partiti politici (articolo 49): è anzitutto attraverso di essi che la Costituzione ritiene che i cittadini possano «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

La Costituzione mira all’unità della vita sociale – “una e indivisibile” – ma non presuppone un popolo omogeneo: ora come all’alba della repubblica, è la pluralità a contrassegnare i rapporti politici; ora più di allora, è la pluralità a marcare l’ordito del tessuto sociale, sempre più ricco e variegato sotto ogni profilo. Il popolo presupposto dalla Costituzione somiglia molto a quello che Alexis De Tocqueville descriveva nel suo viaggio in America:

«un corpo sociale insonne, in fermento tanto nella vita politica come nella società civile, impegnato in un movimento continuo, in cui «tutti gli uomini marciano insieme verso un unico scopo; ma non tutti sono tenuti a marciare sulla stessa via».
[C’è una complessità che deve ricomporsi in scelte condivise; c’è una pluralità che deve trovare un orientamento comune. Nella democrazia rappresentativa, ogni decisione politica scaturisce necessariamente da processi di confronto, dibattito, mediazione, alla ricerca dell’interesse generale e del bene comune possibile. Occorrono soggetti e procedure di mediazione, canali di comunicazione, luoghi di composizione e di incontro perché dall’ interesse particolare possa emergere il bene comune.]

La democrazia rappresentativa, almeno in una certa fase, ha affidato essenzialmente ai partiti politici il compito di mediazione tra la società civile, con il suo pluralismo, e le istituzioni rappresentative.

Oggi molti segnalano la crisi dei partiti o, quantomeno, la loro profonda trasformazione. I partiti sembrano perdere il loro ruolo centrale a fronte della pervasività comunicativa dei media e dei nuovi media, che favoriscono l’emergere di singole personalità carismatiche. Seguendo la classificazione di Bernard Manin, la democrazia dei partiti di massa, che è succeduta al primo parlamentarismo, sta lasciando a sua volta il passo alla democrazia del pubblico, incentrata sulla personalizzazione e sulla comunicazione mediatica, mentre i partiti si indeboliscono.

I leader comunicano direttamente con i loro seguaci, via Twitter, via Facebook: un one to many con messaggi che poi si rifrangono in una comunicazione many to many. Questa trasformazione è sotto gli occhi di tutti, pone nuovi interrogativi e imprime una spinta verso una ulteriore trasformazione.

Sapere, conoscere

L’avvento dei nuovi media – come abbiamo accennato in apertura – ha determinato un impatto di proporzioni epocali sulle dinamiche democratiche. Il terremoto ha il suo epicentro nelle modalità di formazione dell’opinione pubblica. Su questo fronte si contrappongono due diverse linee di pensiero, che con una qualche semplificazione potremmo definire dei “tecno-ottimisti” e dei “tecno- pessimisti”

I primi osservano che se è vero che una componente decisiva di ogni società democratica è data dalla libertà di informazione e di espressione del pensiero, allora le nuove tecnologie si presentano come «forze democratizzanti». Illuminati studiosi del calibro di Robert Post, costituzionalista della Yale Law School, ritengono che Internet e i motori di ricerca tipo Google siano diventati componenti essenziali della vita nella “piazza pubblica” contemporanea. Nella sua lettura, la rete offrirebbe spazi inediti che contribuiscono a formare l’opinione pubblica attraverso la diffusione di notizie, informazioni, opinioni di pubblico interesse così da presentarsi come uno strumento capace di ravvivare il dibattito pubblico.

All’ottimismo dei sostenitori della democratizzazione della società, che sarebbe stata indotta dalla potenza di una capillare tecnologia ora alla portata di molti, si contrappone il pessimismo dei tecno-scettici, di cui parla Yascha Mounk.

Le ricche analisi dei fenomeni che si stanno diffondendo in rete evidenziano tre fondamentali pericoli per il cittadino, che si trova “solo” nella rete: la polarizzazione dell’opinione pubblica, la sua eterodirezione e la disinformazione.

Sono note le osservazioni svolte per primo da Cass Sunstein nel suo famoso libro #Republic a proposito delle “echo chambers” che si formano sui social, dove gli utenti si circondano di persone che incontrano il loro gusto, ascoltano argomenti che già interessano loro e sono esposti a punti di vista che già sono loro congeniali. Le «gated communities» in cui si tende a rinchiudersi nei social sono antitetiche alla «società aperta» di popperiana memoria, così essenziali al confronto democratico.

In un tale contesto, il cittadino in rete non incontra solo i suoi pari e i suoi simili, ma è altresì esposto alla «deliberata creazione e condivisione di informazioni false o manipolate, tesa a ingannare o fuorviare l’auditorio, allo scopo di procurare danni o guadagni politici, personali e finanziari», [come sottolineato dalle indagini condotte ad esempio dal parlamento britannico in seguito allo scandalo di Cambridge Analytica]. Gli strumenti sono il targeting e il nudging, resi possibili grazie alla profilazione di ciascuno di noi, che si realizza con la sterminata raccolta di dati che volontariamente forniamo alle varie piattaforme attraverso l’uso quotidiano degli strumenti informatici. Le piattaforme tecnologiche non sono spazi vuoti o ambiti neutrali (A. Simoncini) e attraverso di esse il cittadino è esposto alla disinformazione e alle notizie false, dove sempre maggiore è la difficoltà a distinguere i fatti e le opinioni.

Il conflitto tra verità e politica non è di oggi soltanto, ma - come aveva intuito la Arendt nel saggio Verità e politica – ciò che oggi nella politica è maggiormente in pericolo non è tanto la verità filosofica, ma la «verità di fatto». Siamo in un contesto segnato dalla tendenza a trasformare i fatti in opinioni.

Da un certo punto di vista, questi sono i problemi eterni della democrazia e della politica: propaganda, informazione unilaterale, censura, estremismo, ideologia, fanatismo, pura e semplice falsità ci sono sempre stati nella vita politica.

Da un certo punto di vista, non c’è niente di nuovo sotto il sole: tuttavia, se si considera il potere e la potenza delle nuove tecnologie si può comprendere che questi problemi oggi avvengono in una dimensione nuova e a una velocità che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Grazie alla potenza delle tecnologie contemporanee, oggi ciò che viene pubblicizzato e propagandato – vero o falso che sia – «è molto più in vista che la realtà da sostituire».

Nel percorso di conoscenza, oggi, c’è un serio problema di rapporto con i dati di realtà.

Come orientarsi in queste trasformazioni vorticose? Come non cadere nella trappola degli “apocalittici e integrati”, efficacemente stigmatizzata anni fa da Umberto Eco a fronte della comparsa dei mezzi di comunicazione di massa? È qui che l’educazione e la formazione universitaria in particolare sono chiamate a giocare un ruolo insostituibile. È vero che con gli sviluppi della tecnologia cresce l’informazione disponibile. E questo è una indiscutibile e straordinaria potenzialità della nostra epoca: news, enciclopedie, libri open access e intere biblioteche open source sono mezzi a disposizione di tutti, di valore inestimabile.

L’informazione disponibile cresce; ma non è detto che con essa stia crescendo anche la conoscenza.

La missione dell’università da sempre è stata più alta e più ampia. Chiamata anche, ma non solo, a elaborare e fornire dati, nozioni e informazioni; vocata anche, ma non solo, a offrire una pur necessaria formazione professionale: l’università non è solo fucina del «sapere». Tutto questo – pur essendo moltissimo – è solo «il vestibolo della conoscenza», come direbbe John Henri Newman, che al compito dell’Università ha destinato scritti ampi e importanti.

Nella vita della comunità universitaria, nei rapporti con i maestri e con i propri simili, ma soprattutto negli incontri con i propri “dissimili”, si amplia l’orizzonte della ragione, in un vero confronto con l’“altro da sé”, e si creano le premesse per un pensiero critico, libero e innovativo.

Oggi come sempre, è sulla capacità di un pensiero libero e critico del cittadino, in tutti i rami del sapere e del fare a cui ciascuno è specificamente chiamato, che si gioca la partita della democrazia. Questa affermazione, valida in ogni epoca, lo è ancor di più oggi in considerazione dello scuotimento tellurico che la diffusione dei nuovi media sta provocando non solo sul sistema dell’informazione, ma anche sulla stessa capacità di conoscenza del genere umano (Buccellati).

Di qui il grande compito democratico che l’educazione universitaria è chiamata a svolgere, che desidero esprimere ricorrendo di nuovo alle parole di Newman, con le quali vorrei congedarmi:

«l’educazione universitaria è il grande mezzo ordinario per raggiungere un fine grande ma ordinario: essa si propone di elevare il tono intellettuale della società, di coltivare la mente del pubblico. [...] È l’educazione che fornisce all’uomo una chiara e consapevole visione delle sue stesse opinioni e dei suoi stessi giudizi, un’autenticità nello svilupparli, un’eloquenza nell’esprimerli. [...] Essa gli insegna a vedere le cose come sono, ad andare dritto al nocciolo, a sbrogliare pensieri confusi, a scoprire ciò che è sofistico e ad eliminare quello che è privo di rilievo. [...] Gli mostra come adattarsi agli altri nella loro condizione mentale, come presentare ad essi la propria, come influenzarli, come sopportarli, come intendersi con loro».

È rimanendo sempre all’altezza di questo grande compito educativo che le università seguiteranno a dare il loro contributo essenziale alla democrazia, basata su una autentica sovranità popolare.

 


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Crediti immagine: Kenny Eliason/Unsplash

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