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La migliore medicina per Covid-19 è la biodiversità

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L'epidemia di SARS-CoV-2 ha riacceso l'attenzione sul mercato della fauna selvatica. Dimensioni difficili da quantificare, soprattutto in considerazione del commercio illegale, ma effetti ben noti: danni alla biodiversità, autoctona e non, minacce alla conservazione delle specie e potenziale trasmissione di patogeni, sia in modo diretto sia in modo indiretto.
Crediti immagine: Illustrations of Indian Zoology - volume 2, 1833 circa. Wikimedia.

All’inizio si pensava fosse colpa dei serpenti. Poi sono stati condannati i pipistrelli, come reservoir. Ora gli ospiti intermedi parrebbero essere i pangolini. Quello che sembra essere certo è che il nuovo coronavirus, SARS-CoV-2, si sia originato a Wuhan in un mercato alimentare in cui si vendevano animali selvatici vivi e le loro carni. Il coronavirus della SARS che nel 2003 allarmò il mondo e causò circa 800 decessi si diffuse allo stesso modo a partire da un mercato, a Foshan, nel sud-est della Cina. In quel caso il virus passò alla nostra specie attraverso due piccoli carnivori, la civetta delle palme e il cane procione. In entrambi i casi si è cioè verificato il cosiddetto “salto di specie”, ovvero il passaggio da un ospite animale all’uomo, favorito da una situazione di stretto contatto con i selvatici, sottratti ai loro ambienti per essere commercializzati nelle città.

Oltre ad avere possibili ricadute sulla salute umana e sull’economia, il commercio di specie selvatiche - il cosiddetto wildlife trade - è una grossa minaccia per la conservazione. Ma quali sono le dimensioni di questo commercio?

Un mercato esteso

Considerando solo i vertebrati terrestri, una specie su cinque è oggetto di commercio. Questo il dato che emerge da uno studio pubblicato a ottobre 2019 sull’autorevole rivista Science, a firma di un team di biologi americani e inglesi esperti di conservazione. Lo studio, il più completo finora pubblicato sul trading di vertebrati terrestri, ha utilizzato un database messo a disposizione dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione (CITES), un trattato applicato da 183 Paesi con lo scopo di controllare lo sfruttamento commerciale di piante e animali.

Il 18% delle specie di vertebrati analizzate (precisamente 5.579 su 31.745) sono oggetto di commercio, che riguarda il 65% delle famiglie di vertebrati terrestri (312 famiglie su 482 totali). La maggior parte delle specie commercializzate sono uccelli e mammiferi, seguiti dai rettili.

Perché si acquista il selvatico

Le ragioni per cui vengono commercializzati gli animali selvatici o parti di essi (pelli, ossa o carne) sono essenzialmente quattro: il collezionismo (i cosiddetti trofei: corna di ungulati, pelli, avorio…), l’utilizzo come animali da compagnia, i rimedi per la medicina tradizionale e l’impiego alimentare. Il traffico, in maggior parte illegale, costituisce un business multimiliardario, che sta portando molte specie all’estinzione.

Un fattore importante per la compravendita di selvatici come animali da compagnia è la loro presenza nei media: ad esempio, la saga di Harry Potter ha suscitato la richiesta di gufi un po’ ovunque, e nei mercati indonesiani i rapaci notturni provenivano solo da catture in natura. Lo stesso era accaduto ai pesci pagliaccio e al pesce chirurgo blu, sottratti alle barriere coralline perché divenuti popolari con il film di animazione “Alla ricerca di Nemo”.

Con l’avvento dei social, il commercio si è arricchito di nuove specie in seguito al diffondersi di video divenuti virali sui social network, come è avvenuto per i lemuri del Madagascar.

Gli uccelli sono richiesti principalmente come animali da compagnia e, secondo il già menzionato studio pubblicato su Science, le specie più ricercate hanno dei tratti distintivi che le differenziano dalle altre a livello filogenetico, come vistosi colori del piumaggio o un canto particolare. I mammiferi, invece, sono principalmente venduti sotto forma di prodotti (si pensi all’avorio derivato dalle zanne di elefante).

In tutti i casi, le specie coinvolte nei traffici, legali o illegali, appartengono a categorie di rischio elevato di estinzione o vulnerabili, secondo la Red List dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), recentemente aggiornata (l'abbiamo raccontato qui). In generale, la rarità di una specie ne aumenta il valore di mercato, per questo quanto più un animale diventa raro tanto più sarà ricercato per essere venduto. Quando una specie diventa introvabile l’interesse si sposta su quelle filogeneticamente più simili presenti nell’area.

L’epicentro del commercio

I Paesi da cui origina la maggior parte dei traffici sono tutti quelli nella fascia tropicale per quanto riguarda la vendita di animali da compagnia, mentre i prodotti provengono dall’Africa e dal sud-est asiatico, incusa la catena dell’Himalaya. Secondo un report pubblicato a febbraio 2020 da TRAFFIC, una ong inglese che opera a livello mondiale sul monitoraggio del commercio -legale e illegale- di animali e piante selvatici, il sud-est asiatico è la regione dove si origina il traffico più elevato. Tra i 180 milioni e un miliardo di rane sono commercializzate ogni anno dall’Indonesia in Europa e negli Stati Uniti, tra il 2005 e il 2013 sono stati esportate più di 10.000 pelli di rettili, e circa 10 milioni sono le tartarughe di acqua dolce esportate. Questi i dati del commercio legale, su cui aleggia però l’inconsistenza dei regolamenti e dei controlli.

Ancora più allarmanti i dati derivanti dalle confische al commercio illegale: ad esempio tra il 2008 e il 2019 sono stati sequestrati 225 mila chilogrammi di avorio derivante dall’elefante africano e più di 4.500 corni di rinoceronte. La lista è molto lunga e comprende orsi, tigri, uccelli, tartarughe, oltre al pangolino, l’attuale imputato della trasmissione del SARS-CoV-2 all’essere umano. Negli ultimi vent’anni è stato stimato infatti un commercio di circa 895 mila pangolini. I pangolini sono mammiferi privi di denti che si nutrono di formiche e che hanno il corpo ricoperto da scaglie cheratiniche sovrapposte. Proprio queste scaglie sono la loro rovina: sono infatti un ricercato ingrediente della medicina cinese (secondo la quale aiuterebbero a contrastare i problemi respiratori come l’asma, oltre a favorire l’allattamento e prevenire le irritazioni della pelle), oltre a essere una pietanza d’élite. Nel solo biennio 2017-2019 sono state sequestrate più di 96 mila scaglie di animali provenienti dall’Africa.

Esistono nove specie di pangolini diffuse tra Africa e Asia, tutte a rischio critico di estinzione o vulnerabili, secondo la IUCN. Lo scorso 7 febbraio i ricercatori della South China Agricultural University di Guangzhou hanno dichiarato che il coronavirus trovato nell’uomo e nel pangolino condividono il 99% della sequenza genetica, e per questo è stato considerato la fonte di infezione più probabile (ma i dati vanno presi con cautela, perché il risultato è riferito solo a un particolare receptor-binding domain, non all'intero genoma).

La medicina delle estinzioni

Secondo l’OMS, in molti Paesi in via di sviluppo, la medicina tradizionale rappresenta il cardine dell’assistenza sanitaria o il suo complemento. In realtà la medicina tradizionale cinese ha superato i confini nazionali e i rimedi vengono impiegati in più di 180 Paesi nel mondo, un’industria che fattura oltre 60 miliardi di dollari l’anno, secondo una recente inchiesta del National Geographic.

Molti di questi rimedi si basano sull’impiego di prodotti derivati da animali e piante selvatiche. Le ossa di tigre sono considerate importanti antinfiammatori, i corni di rinoceronte servirebbero come antipiretici (oltre che depuranti e anticancerogeni), la bile di orso tibetano sarebbe una cura per le infiammazioni di fegato e cistifellea e, come abbiamo visto, le scaglie di pangolino costituirebbero un toccasana per una ricca varietà di patologie.

In realtà non esiste nessuna prova scientifica della validità di queste cure, l’unica certezza è che la continua richiesta sta portando all’estinzione numerose specie, oltre ad arricchire un mercato illegale in mano ad ecomafie e generatore di conflitti. Ad esempio, secondo TRAFFIC, nell’ultimo ventennio i casi di bracconaggio ai danni delle tigri sono aumentati progressivamente. La stima conservativa è di un prelievo, dal 2000 al 2018, di 2.359 tigri. Nell’ultimo decennio, 8.889 rinoceronti sono stati bracconati in Africa, e le cinque specie esistenti sono tutte a rischio critico di estinzione, come il rinoceronte di Java, di cui restano solo circa 70 esemplari. Il pangolino è stato considerato l’animale più bracconato a fini di contrabbando in assoluto.

Pet esotici che diventano alieni

Trasportare specie selvatiche al di fuori del loro areale naturale comporta anche il rischio che alcune di esse possano diventare specie aliene invasive: se una volta arrivate nel nuovo ambiente si insediano e diffondono con successo, possono infatti provocare impatti negativi sulla biodiversità, con possibili ricadute sociali ed economiche. «A scala mondiale, il vettore principale di ingresso di animali e piante è il commercio di specie di interesse ornamentale», spiega a Scienza in rete Piero Genovesi, responsabile dell’ufficio fauna dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e presidente della commissione per le specie invasive della IUCN. «Le piante sono importate per la vivaistica e i vertebrati come animali d’affezione, quindi si tratta di importazioni intenzionali, al contrario di quanto avviene per gli invertebrati, che di solito sono trasportati accidentalmente, come contaminanti di altre merci. Inoltre ci sono specie che nell’areale di origine sono minacciate, ma che introdotte in altri ambienti diventano invasive». 

Quindi il commercio di fauna e flora esotica in alcuni casi sottrae alla natura di un luogo alcuni individui e contemporaneamente ha un effetto negativo sugli ambienti ospitanti. Tra gli impatti che le specie aliene possono avere c’è anche la trasmissione di patogeni.  «Un esempio è la chitridiomicosi, una malattia provocata dal fungo Batrachochytrium dendrobatidis che colpisce la cute degli anfibi con effetti letali, causando il declino di molte specie», spiega Genovesi. Originario dell’Africa, il fungo è ormai presente in tutto il mondo e il commercio internazionale è l’imputato principale di questa diffusione. Ma non solo. «Le specie aliene invasive rappresentano anche un problema sanitario perché possono agire come vettori di malattie per l’essere umano, come le zanzare. Poi c’è il caso di specie tossiche come la panace di Mantegazza, una pianta importata a scopo ornamentale, il cui lattice, che fuoriesce dalle foglie e dai rami danneggiati, può provocare ustioni sulla pelle se esposto al sole. A volte gli effetti possono essere più subdoli, come nel caso del giacinto d’acqua, una pianta ornamentale capace di formare estesi tappeti di piante galleggianti, che provoca diversi impatti. Tra questi, in alcuni Paesi, aumenta il rischio di malaria creando un ambiente idoneo per le larve di zanzara».

Una difficile soluzione

Le zoonosi ci costringono a non ignorare il fatto che negli ecosistemi sia tutto interconnesso, e come la distruzione degli equilibri naturali possa impattare negativamente le nostre vite in molti modi diversi. SARS-CoV-2 non è certo il primo caso in cui una malattia passa all’essere umano a partire da un animale selvatico. Oltre alla già citata SARS e all’influenza aviaria, ci sono ad esempio l’ebola e l’HIV, entrambi virus originati dai primati.

L’uso non sostenibile delle risorse naturali, l’espansione antropica in ambienti un tempo selvaggi, il commercio e lo sfruttamento dei selvatici creano condizioni perché i patogeni possano fare salti di specie. Per questo la protezione della natura non è mai disconnessa dalla tutela delle popolazioni umane stesse.

In seguito al diffondersi del SARS-CoV-2, il comitato permanente del parlamento cinese si è riunito e ha deciso di bandire con effetto immediato il commercio e il consumo di animali selvatici, con effetti su tutte le specie. Già nel 2003, in risposta all’epidemia di SARS, la Cina aveva ristretto il numero di specie selvatiche per il quale era consentito il commercio. Come abbiamo visto le regole esistono. La CITES è uno strumento che serve a tutelare le specie minacciate attraverso il controllo dell’esportazione, importazione e detenzione dei selvatici. Per le specie aliene invece ci sono regolamenti che cercano di prevenirne l’ingresso, come la direttiva europea 1143 del 2014.

Ma oltre alle regolamentazioni, un grosso lavoro deve essere svolto nel campo della comunicazione. Secondo TRAFFIC e WWF, la strada migliore è l’adozione strategie basate sulle più recenti conoscenze di psicologia e sociologia per cambiare i comportamenti. L’obiettivo è di agire direttamente sui consumatori per orientare le loro scelte e ridurre alla base la domanda per i prodotti che comportano il commercio illegale di fauna.

 


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